La moderna società industriale basata sui contrasti deve approdare a nuove norme giuridiche, che non siano di carattere meramente etico, storico o sociale. Le si percepirà come “diritto naturale”, una volta compresa la complessità di organismi come i mezzi di produzione e distinta la loro posizione all’interno del corpus sociale. Un diritto semplice come quello della proprietà privata o collettiva sui mezzi di produzione non gode più di alcuna veridicità: mettere d’accordo questi due poli opposti è possibile solo attraverso un processo di riconoscimento, che a partire da alcuni aspetti parziali divenuti ideologici, che non riguardano né risolvono il problema pur restando minacce potenziali per il mondo, faccia meditare nel complesso sui diritti dell’uomo nelle fabbriche.
Nei limiti di quanto noto all’autore, è possibile distinguere tre livelli/gradi di proprietà,
tra i quali quasi non esistono punti di transizione:
Proprietà di ordine primario
Proprietà privata sulla cosa (proprietà di consumo). Natura giuridica: proprietà di tipo statico e individuale, a favore di una disponibilità illimitata (a uso del singolo). Non di natura sociale immediata.
Proprietà di ordine secondario
a) proprietà per il consumo collettivo o cooperativo, detta anche di utilizzo, proprietà di gruppo sulla cosa;
b) proprietà per un uso pubblico (strade, edifici pubblici, a uso della comunità). In entrambi i casi, pura e semplice proprietà sociale e statale a uso pubblico.
Proprietà di ordine terziario
Proprietà sui mezzi di produzione. Natura giuridica: dinamico-funzionale. Insieme di proprietà, la cui sostanza è suddivisa in tre parti, sostanzialmente diverse tra loro.
a) un diritto di possesso materiale, simile alla proprietà, del collettivo di lavoro sugli strumenti dello stesso. Il che significa che tutte le maestranze dispongono liberamente e in modo diretto dei mezzi di produzione, senza bisogno di nessun diritto materiale o funzionale di un capitale esterno. Ma qui per proprietà non si intende quella finalizzata allo sfruttamento come in passato, bensì la sovranità per un utilizzo conforme all’idea e agli scopi della produzione. Questo in ragione della sostanza giuridica dello strumento, come mezzo avente un proprio fine.
b) un diritto di proprietà spirituale-intellettuale e funzionale. Il mezzo di produzione in quanto strumento di lavoro ha un valore sia materiale sia funzionale. Quest’ultimo esiste solo in correlazione alle attitudini spirituali-intellettuali e fisiche dei singoli “funzionari”, cioè i lavoratori che se ne servono, che lo costruiscono o lavorano per esso. In questo senso la dipendenza tra uomo e strumento inizia e finisce nella produzione, finalizzata ad adempiere alle funzioni fisico-spirituali. La natura strumentale del mezzo di produzione mette nelle “mani” altrui la sostanza giuridica al fine di trasferire o dare seguito allo sviluppo dei mezzi di produzione. Nella concezione romana al posto di questo diritto esisteva quello successorio per legame di sangue. La natura rei, ovvero del mezzo di produzione, esclude questo processo ereditario a favore dell’”eredità spirituale-intellettuale”. Secondo “il diritto naturale” solo chi è capace può ereditare e fare uso della cosa per gli scopi della comunità. Ma questo significa che i “diritti di proprietà”, privata o statale, della concezione romana non sono validi. La proprietà per capacità è di natura spirituale-intellettuale. Il secondo elemento costitutivo della proprietà giuridica spirituale-intellettuale consente quindi il trasferimento senza alcuna contropartita materiale.
c) un diritto di proprietà spirituale-intellettuale come diritto sociale. La società in questo caso non è lo Stato, che può sostituirla anche senza farne le veci. Perché qui per società si intende la somma di tutti gli uomini che hanno “dato credito” ai mezzi di produzione. Per “credito” si intende un elemento che incide sia materialmente sia spiritualmente e intellettualmente sull’intero bilancio della società. Il credito consiste sia in un anticipo danaroso a tutti gli effetti, sia in “fiducia nella produttività dell’impresa” in un’ottica sociale. Dall’anticipo derivano i “crediti della società” e il “passivo dell’impresa” nei confronti della società. In questo senso, il mezzo di produzione è una proprietà temporanea della società intesa come un diritto d’autore, in ragione del quale l’impresa è costretta a versare royalties nel corso del tempo. Cosa significa questo?
La proprietà statale o sociale sui mezzi di produzione come possesso materiale, ovvero nel senso datole dalla concezione romana, – come cosa – non esiste: in entrambi i casi si tratta di un concetto che esula della natura della cosa. Stato e società, in senso materiale e funzionale, non godono di nessun “diritto naturale” sul mezzo di produzione. Lo Stato neanche a parlarne; la società, invece, come insieme di singoli componenti gode indirettamente di un diritto a un corrispettivo, sotto forma di una parte del profitto dell’impresa. Questo guadagno serve a mantenere fisicamente le istituzioni dell’ambito spirituale-intellettuale e culturale dell’organismo sociale e, in un certo qual modo, sostituisce il passaggio del denaro dallo Stato alla sfera culturale.
Se dal punto di vista concettuale si ripristina il rapporto naturale tra lavoratore e strumento, appaiono evidenti le differenze sostanziali dei rapporti giuridici legati alla proprietà, che sono di tipo:
a) fisico-personale o collettivo,
b) personale-funzionale,
c) spirituale-intellettuale in senso lato.
Quelli di tipo fisico (a) a loro volta si differenziano a seconda della sostanza della cosa. Se questa è di tipo prettamente consumistico, il concetto di proprietà statico-romano nella sua evoluzione odierna ha senso e una propria ragione di esistere; è il diritto “naturale” dei beni di consumo, delle persone che necessitano dei mezzi di sussistenza. In questo caso si può anche parlare di una proprietà sociale autentica (II b).
Se la cosa non è di tipo consumistico, ma solo un mezzo utile allo sviluppo e alla realizzazione (III b) nelle mani dell’uomo e usato per creare beni di consumo necessari, il concetto statico di proprietà non è applicabile, se ci si focalizza sulla funzione spirituale-intellettuale e individuale dell’uomo che usa lo strumento. Considerando ora la natura funzionale del mezzo, esso possiede un aspetto che va oltre la sua materialità (in quanto cosa), che anche nella sua sostanza giuridica deve rendere manifesta la relazione con la persona o il gruppo di persone che producono beni intellettuali o materiali, in quanto legittimi proprietari dal punto di vista spirituale e funzionale (b), e non è una proprietà ereditabile.
Considerando infine l’origine del mezzo di produzione, emerge un diritto della società che non rientra né nella categoria della proprietà dei beni di consumo (a) di tipo statico, né in quella dinamica del mezzo di produzione (b). Per meglio comprendere il rapporto “naturale” della società o comunità (uno “naturale” dello Stato non esiste), lo si deve pensare come riserva di credito, che nell’economia moderna giustifica giuridicamente la riscossione degli interessi. Qui la sostanza giuridica sfugge se la si analizza solo “nell’immediato”. Al momento della sua realizzazione e installazione, il mezzo di produzione apparteneva al popolo, il quale più che in passato partecipava alla sua messa in opera grazie all’interdipendenza basata sulla divisione del lavoro. Nel capitale destinato ai mezzi produzione a disposizione delle maestranze si individua una parte fisica dell’anticipo spirituale-intellettuale. Il mezzo di produzione è pertanto un oggetto di valore della comunità (c), nella misura in cui è un capitale della produzione. Il fatto che come capitale di credito si richieda una contropartita, sottoforma di una parte del profitto del capitale stesso, dipende dalla natura spirituale-intellettuale dell’ “oggetto mezzo di produzione”.
Il nuovo diritto umano-sociale
Quando la sostanza giuridica nel diritto delle origini era ancora unitaria, l’esistenza della comunità si fondava sul mezzo di produzione terra. “Delle origini” significa del tempo in cui la sostanza giuridica unitaria era fatta discendere dalla divinità ed era vissuta nella comunità come diritto divino. La divinità che imponeva la legge era venerata al contempo come creatrice e “conferitrice” del mezzo di produzione; il terreno pertanto non era ancora una proprietà come la si intendeva nel diritto romano, ma era in prestito. Esattamente come il mezzo di produzione naturale era creato da Dio, anche il diritto era dato dal creatore stesso. Il diritto coincideva con la divinità (per i greci in “Themis” coincidevano la divinità e il diritto).
Soltanto dopo che l’uomo nel collettivo degli strumenti si è creato da solo un altro punto di partenza per la produzione, è sorta la questione sociale come problema giuridico della proprietà e delle sue relazioni. Il diritto divino invece non è più intrinseco in questa creazione dell’uomo. Nella questione sociale quale problema giuridico, spetta all’uomo il compito di mettere ordine con le proprie forze e i poteri legislativi nei rapporti di proprietà relativi ai mezzi di produzione, e cioè non aspettarsi che l’ordine arrivi da qualche istanza superiore, sia essa di origine divina o statale, né di farsi imporre le leggi.
Il nuovo diritto sociale-umano deve attuarsi nella correlazione oggettiva tra materia e spirito del mezzo di produzione, intuibile e da realizzarsi nel diritto sia nella sostanza che a livello sociale.
Questa correlazione oggettiva è di tipo
a)fisica: all’interno dell’azienda tra strumento di lavoro e comunità lavorativa, fuori dell’azienda tra questa e i suoi fornitori e consumatori;
b)funzionale: per il singolo individuo in ragione della sua speciale funzione (“manuale-artigianale”) per gli scopi aziendali e nel personale rapporto giuridico all’interno dell’azienda come organismo della comunità aziendale; nel rapporto dell’impresa nel suo insieme con tutta la comunità (l’impresa come cellula produttiva dell’organismo sociale);
c)intellettuale-ideale: sul piano tecnico-produttivo, organizzativo, economico e intellettuale-ideale (idea di produzione).
Osservando queste correlazioni, l’industria moderna torna ad avere una struttura globale, anche se con un nuovo grado di sviluppo. Rispetto al passato, nei rapporti improntati sui legami di sangue e di razza, religiosi, politici od organizzativi, esistono rapporti vitali totalmente nuovi tra i gruppi di persone. Se da un lato gli antichi rapporti hanno mano a mano perso significato per quanto riguarda i riti e le abitudini, i nuovi raggruppamenti di persone sorti per scopi aziendali, dal punto di vista sociale hanno acquisito un valore più umano. La “comunità aziendale” odierna non riesce ancora a comprendere il proprio potenziale sociale, globale e umano e le opportunità nascoste ancora latenti di una comunità animico-spirituale nel mondo lavorativo concreto, fondato su scopi, dati di fatto e spesso deludente.
Quando i sindacati parlano della fabbrica come di “un’associazione non naturale”, non di una “forma di vita sociale originaria”, ma di un’“entità artificiale, creata dall’uomo, per sua scelta”, tale definizione vale solo per quelle manifestazioni attuali prescritte dalla legge, nelle quali rapporti giuridici artificiali e non obiettivi impediscono o distruggono la correlazione tra consapevolezza e produzione, e non per correlazioni globali di livello superiore.
I tentativi di creare un’atmosfera animico-spirituale come base del costituirsi di una comunità subiscono continue angherie dall’esterno. Si capisce dunque perché la comunità aziendale sia vista dai sindacati come un “sistema con scopi precisi”, ed è allo stesso modo infruttuoso arrestarsi di fronte a critiche lecite e non tentare di creare una comunità sociale del futuro, cui (nel bene o nel male) siamo destinati. I moderni sviluppi della tecnica ci hanno portato a una condizione da cui non è possibile tornare indietro alle antiche comunità naturali. Si tratta piuttosto di rimuovere quelle barriere esistenti nella proprietà e nei rapporti giuridici che impediscono una consapevolezza sociale e di gruppo all’interno della fabbrica, intesa come nuova forma di comunità.
Per prima cosa occorre dare vita a un nuovo ordinamento giuridico capace di portare una nuova sostanza oggettiva:
a) tra i gruppi di produzione della fabbrica e i mezzi di produzione (strumenti);
b) per agevolare i passaggi di proprietà e dei diritti di disporre a chi è dotato di capacità (invendibilità);
c) tra gli aventi diritto (gruppi di produzione) e la collettività, attraverso la rappresentanza dell’ente di competenza del membro spirituale-intellettuale e culturale dell’organismo sociale.
A tale scopo, occorre
1. analizzare il mezzo di produzione nella sua essenza come strumento del collettivo, oltre che la sua posizione naturale all’interno del collettivo delle persone che lo impiegano, con tutte le conseguenze giuridiche del caso. Nel rapporto con il gruppo di produzione il mezzo di produzione perde la propria natura merceologica; in questo modo non è più vendibile;
2. un nuovo concetto di proprietà, triplice, grazie al quale anche la forza lavoro perde la propria natura merceologica e quindi dà spazio a impulsi lavorativi di tipo sociale (al posto di quelli egoistici);
3. un nuovo senso di proprietà, che
a) per la comunità aziendale consista in un dominio illimitato sulla cosa, inteso come diritto di disporne nell’ambito dei meccanismi dell’economia generale (componente statica);
b) sia “dinamico”, nell’eventualità di un passaggio a un nuovo membro della comunità con le giuste doti fisiche e spirituali-intellettuali;
c) riconosca il diritto della società a una parte del profitto, ma esiga anche l’inclusione in una rete di associazioni, grazie alle quali attraverso la conclusione di contratti la fabbrica partecipi al processo economico in modo utile e sensato (senso di proprietà socialmente responsabile).
In questo modo il problema della comunità aziendale diventa quello di una nuova coscienza comunitaria. Il vecchio rapporto di proprietà ha il suo limite nell’assenza di una proprietà statica o del consumo e nel suo essere un mezzo comune atto alla creazione di beni di consumo, quindi una proprietà di tipo dinamico. La dinamica, ovvero il carattere puramente funzionale di questa proprietà del mezzo di produzione, è il naturale fondamento giuridico che favorisce il passaggio a un nuovo soggetto abile, dato che uno di tipo ereditario in un meccanismo dinamico sarebbe innaturale. Questo tipo di coscienza comunitaria comporta anche un rapporto mediato tra il vivere spirituale-intellettuale e la cellula produttiva (mezzo di produzione e maestranze) simile a un rapporto organico, perché la capacità funzionale della cellula è soprattutto il risultato di una forza creatrice del vivere spirituale-intellettuale all’interno dell’organismo sociale. Di nuovo compare un rapporto giuridico “naturale”, grazie al quale la cellula al servizio dell’organismo nella sua totalità (non divisa in modo egoistico come nel capitalismo privato oppure come in quello dell’apparato statale).
La “triplice forma” dei rapporti giuridici significa quindi:
1. un rapporto tra maestranze e mezzi di produzione regolamentato giuridicamente da contratti tra i partecipanti alla produzione e che riguardi il contributo alla stessa (prestazione individuale); è la funzione (spirituale-intellettuale) individuale (non il lavoro a cottimo!) a stabilire le quote dei profitti
2. che l’ordinamento giuridico statale nel suo complesso sia conforme alle norme
a) a favore del trasferimento (ciclo dei mezzi di produzione) a “partecipanti alla proprietà dei mezzi di produzione”, in un ricambio continuo tra chi arriva e chi parte;
b) a favore delle partecipazione della vita culturale alla gestione del capitale e ai profitti.
In questo modo lo Stato esercita l‘unica funzione originale che gli compete, il diritto “naturale” di legalizzazione e tutela attraverso la legge. In questo senso non gli spettano altri diritti.
3. La partecipazione della vita culturale e spirituale-intellettuale alla gestione del capitale e ai profitti è regolamentata dallo statuto dell’impresa[1].
La complessità giuridica dei mezzi di produzione è legittimata attraverso tre diversi diritti funzionali di questa “partecipazione alla proprietà”. Grazie a un meccanismo triplice, la dinamica del diritto di proprietà sui mezzi di produzione acquista una dimensione sociale.
Messa in pratica
La riorganizzazione del concetto di proprietà relativa ai mezzi di produzione industriali, rispetto alla difficoltà del comprenderne la complessità della sostanza giuridica, non rappresenta un problema di fondo. Più che altro è la diffusa concezione di stampo comunista, rappresentata soprattutto dal Marxismo programmatico della lotta di classe, a ritenere che si possa eliminare l’“ingiustizia della proprietà” capitalista solo attraverso una rivoluzione, malgrado con essa non si sia tuttora arrivati da nessuna parte. “Rifletti al che cosa, ma più ancora al come”[2], si dice nella seconda parte del Faust. Una volta che ci si concentra sul “cosa”, per riorganizzare il deludente diritto di proprietà in essere, si potrà seguire una sola strada, quella della legalità. Se si segue la via della legalità, i moderni diritti di proprietà sui mezzi di produzione industriali diventano prestiti redimibili che mettono fine al “dominio” del proprietario sull’azienda, pur lasciando sostanzialmente intatti per una generazione i profitti degli attuali proprietari. Poiché, date le premesse, la riorganizzazione dei fondi può avvenire solo in base alla domanda di prestiti, l’interesse fungerebbe da elemento equilibratore tra il bisogno di denaro, strumenti e consumo, nell’ottica delle note dinamiche del mercato monetario. Risulteranno davvero “pizzicati” da queste regole nuove solo i possidenti che, in relazione alla proprietà del capitale, sono interessati al potere e al rango sociale. Delle pretese di questi residui di coscienze ostacolatrici appartenenti al passato c’è poco da temere, se l’opinione pubblica ha fatto progressi tali da riuscire a impedire le lobby di queste forze nemiche del progresso. L’antico privilegio del possesso del capitale nel nostro secolo, volenti o nolenti, non esiste più.
Non è ancora possibile fare previsioni su quanto aumenterà la produttività grazie al lavoro comunitario che si avrebbe all’interno delle industrie. L’effetto di un’economia che mira all’ordine associativo dovrebbe essere di enorme portata. Questa “economia della collaborazione”, diversamente da quella basata sulla concorrenza, rimanda a una “perdita sistematica” infinitesimale, mentre il fattore di perdita dell’economia pianificata – come è noto – come pure quello della libera economia di mercato basata sull’eccesso di organizzazione, attività contrastanti e sovrapproduzione, portano necessariamente la “perdita sistematica” dell’ordine associativo a replicarsi più volte. Dovrebbe quindi accadere, anche non subito ma con il consenso generale, che il capitale in denaro non sia cedibile per successione – quando non finisce nelle mani sbagliate a causa del fisco – bensì sia trasferibile a un’associazione intellettuale dell’organismo sociale[3], dove non solo non andrà perduto dal punto di vista economico, ma si trasformerà in quel “seme” che grazie al sostegno a favore di scienza, formazione e cultura servirà al progresso comune. Anche questo processo è di tipo organico-dinamico ed è dotato di una sorta di “ragione automatica” (R. Steiner) che, per quanto concerne il denaro, crea un equilibrio tra l’ambito economico e quello culturale; coloro che producono beni spirituali-intellettuali in quanto consumatori per eccellenza, rappresentano la controparte necessaria alla produzione dei beni materiali, oggi distrutta dalla stagnazione (a causa della sovrapproduzione) e continuamente in crisi.
La storia del progresso ha seguito strade singolari, più o meno tortuose. Se si torna a considerare il piano eversivo comunista contro il diritto di proprietà e la consapevolezza borghese, è interessante notare che Karl Marx, in una fase tarda della sua vita, fosse giunto alla giusta conclusione circa la soluzione della natura strumentale del mezzo di produzione. In una conferenza da lui tenuta nel 1865 su “salario, prezzo e profitto”, disse: “ da che dipende questo fenomeno curioso, per cui troviamo sul mercato un gruppo di compratori che posseggono terra, macchine, materie prime e i mezzi di sussistenza, tutte cose che, all'infuori del suolo al suo stato naturale, sono prodotti del lavoro, e d'altra parte un gruppo di venditori che non hanno altro da vendere che la loro forza-lavoro, le loro braccia e il loro cervello lavoranti. Come avviene che un gruppo compera continuamente, per realizzare profitto e per arricchirsi, mentre l'altro gruppo vende continuamente per guadagnare il proprio sostentamento? L'esame di questa questione sarebbe un esame di ciò che gli economisti chiamano "accumulazione primitiva od originaria" (accumulo di capitale), ma che dovrebbe però chiamarsi espropriazione primitiva. Troveremmo che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell'unità primitiva che esisteva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro. Una ricerca di questo genere esce però dai limiti del mio tema attuale”[4]. Nell‘indagare la “dissociazione dell’unità primitiva che esisteva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro” ci si sarebbe dovuti chiedere quale tipo di carattere giuridico storico del mezzo di produzione abbia generato questa dissociazione, in quanto la condizione giuridica privilegiata del proprietario degli strumenti di lavoro ha generato le premesse della “accumulazione primitiva od originaria” di capitale fino alla sua crescita e all’acquisto dei mezzi di produzione. Questa indagine del 1865 però non era più attuale, se si pensa che il Manifesto comunista del 1848 con i suoi dogmi aveva già indicato una via: la statalizzazione dei mezzi di produzione (attraverso la rivoluzione). Opponendosi alla classe borghese grazie a un’ideologia, lo stesso Marx aveva ostacolato la soluzione che prevedeva un nuovo diritto di proprietà.
Dalla statalizzazione non poteva prendere vita una disciplina della proprietà, al contempo individuale e sociale. Che però è l’unica forma di proprietà richiesta dall’individuo allo stato attuale della sua evoluzione. Il presidente del Senegal, Leopold Sedar Senghor, le cui conferenze sul “concetto di proprietà per il negro africano” tenute qualche tempo fa nella Repubblica democratica ora che questo studio è al termine godono ancora di buon credito, sulla questione della proprietà ha risposto al sottoscritto con queste parole: “Je crois, comme vous, que la solution du problème se trouve dans le rejet de tous les dogmatismes. En effet, les exigences de l'Homme veulent que la propriété soit, en même temps, sociale et personnelle”[5]. Oggi il potere organizzato del lavoro, “le braccia e le menti abili”, è talmente grande da essere in grado di portare a termine la riorganizzazione del diritto di proprietà seguendo la via della legalità democratica, che dovrebbe eliminare e non rendere più possibile l’“espropriazione originaria” e i suoi effetti, l’accumulo di enormi capitali nelle mani di privati (o dello Stato), se intende davvero muoversi in questa direzione.
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