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La proprietà dei mezzi di produzione



Terzo capitolo
I quattro vizi di fondo della moderna condizione sociale

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Qualche tempo fa sulla rivista “Il sindacalista” è uscito un articolo intitolato “La fabbrica è una comunità?”[1]. Con un approccio sociologico, si spiega e dimostra il perché la fabbrica non possa esserlo. Insieme alle “domande di base sulla proprietà”, vale la pena di approfondire questa affermazione.

Chi scrive afferma che del termine “comunità”, trito e ritrito, si fa un uso sconsiderato in ambito aziendale; e che non si parla solo di comunità di lavoro, di fabbrica o di produzione, ma addirittura di “famiglia aziendale”, di “uno speciale spirito dei dipendenti” e della “nostra comunità a parole e per immagini” (giornale aziendale).

La definizione che segue è stata presa da un manuale di diritto del lavoro: “Il contenuto e con esso l’essenza giuridico-sociale della comunità dei rapporti di lavoro, si comprendono se si pensa anche ad un legame di tipo spirituale, che ha senso grazie al rapporto sociale su cui è basata la fiducia dei rapporti di lavoro. Il rapporto di lavoro può funzionare solo se una volta riconosciuto l’ordine intrinseco della comunità di lavoratori, le azioni delle persone appartenenti alla comunità si incastrano le une nelle altre”. A tal proposito si indaga sul come le esperienze sociali siano effettivamente vissute dal lavoratore all’interno dell’ordine aziendale, e si sono individuati quattro caratteri fondamentali. “All’inizio il lavoratore fa esperienza della dipendenza, in secondo luogo del condizionamento dovuto alla propria funzione, in terzo luogo della strumentalizzazione del proprio lavoro e in ultimo l’incertezza economica della propria esistenza di lavoratore”. Il che significherebbe che le esperienze sociali non lascerebbero spazio a un legame collettivo tra datore di lavoro e lavoratori; da quel che si dice “esse mettono in luce le diverse e contrapposte posizioni sociali all’interno della fabbrica e fanno sembrare ogni tentativo di rappresentare la fabbrica come una comunità di vita e di lavoro, quale esso è in realtà: una costruzione artificiale con finalità proprie”. Il titolo “La fabbrica annienta le relazioni umane” è indicativo del come la dipendenza sia percepita, dal momento che “il posto e gli strumenti di lavoro sono messi a disposizione da altri”. In questo l’autore dell’articolo vede “la caratteristica del lavoratore per eccellenza” e un tratto dell’ordinamento economico e giuridico basato sulla “libertà contrattuale” e sulla “libera” scelta del posto di lavoro. La libertà è messa tra virgolette in quanto discutibile, poiché “a fronte dell’incombente preoccupazione per il sostentamento di sé e della propria famiglia possibile grazie a un’offerta di lavoro, il lavoratore non può permettersi di aspettare”, e al contrario “deve mettere a disposizione della fabbrica la propria forza lavoro e sottomettersi al dominio altrui”. E ancora: “La realizzazione del lavoro nella fabbrica altrui è costitutiva della dipendenza personale del lavoratore. All’interno della fabbrica fa esperienza del come la gerarchia abbia annientato le relazioni umane e di un distacco imperante nei contatti tra datore di lavoro e lavoratori”. Il lavoratore percepisce “che in fabbrica esiste un ordine immutabile tra chi sta sotto e chi sta sopra. L’insieme delle condizioni che regolano i rapporti umani a livello di disciplina, autorità e distanza non dà spazio a nessun legame animico-spirituale tra datore di lavoro e lavoratore, e al contrario accentua in quest’ultimo un senso sempre più forte di dipendenza, incertezza e insoddisfazione”.

Il lavoratore sente che il proprio destino lavorativo è determinato da altri e che esso consiste nella necessità di lavorare in uno spazio e nell’interesse di altri. “Da un lato si trova l’autodeterminazione dell‘attività aziendale da parte di ognuno, dall’altro il lavoro determinato e dipendente da altri. Questa differenza di funzioni rappresenta il fondamento per un conflitto di interessi di grandi proporzioni, evidente soprattutto nel conflitto salariale. Per il lavoratore lo stipendio è un prezzo e un profitto derivante dal proprio lavoro e che cerca di alzare. Per l’imprenditore esso è uno dei costi da sostenere, da tenere il più basso possibile”.

Il senso di estraneità del lavoro è evidente anche dalla necessità per l’operaio della fabbrica di trascorrere buona parte della sua vita in un ambiente che non gli appartiene, in un capannone, dove a dominare sono l’utilità e la convenienza e non consuetudini armoniche e a misura d’uomo.

La fabbrica e gli strumenti di lavoro in essa contenuti sono di proprietà del datore di lavoro, in un certo senso un prolungamento della sua casa, dove – dal punto di vista giuridico e pratico – gli spettano i diritti di padrone. Nell’industria del primo periodo l’attività dei lavoratori era attribuita al “padrone”: i lavoratori erano le sue “mani”. Il lavoratore che disponeva degli strumenti di lavoro per gli scopi del datore di lavoro (macchinari, attrezzi, materie prime, ecc.), ai sensi dell’art. 855 del Codice civile tedesco (BGB) è solo un semplice “detentore”. Questa norma stabilisce che si deve considerare “il lavoratore, in base al rapporto di dipendenza che lo contraddistingue, solo un mezzo appartenente al proprietario che esercita il proprio potere sugli strumenti di lavoro”. Il lavoratore non ha una volontà propria e deve solo mettere in pratica quella del “padrone”[2].

“In sintesi si può dire che in sostanza il senso di estraneità consiste nel mettere a disposizione della fabbrica la propria forza lavoro da parte del lavoratore e nella sua sottomissione al dominio e agli scopi altrui”.

Riguardo al terzo carattere: “Il lavoratore percepisce la propria strumentalizzazione, sente di essere uno strumento che grazie al proprio lavoro soddisfa uno scopo prefisso da altri, ovvero guadagnare. Una condizione che si esprime attraverso l’affermazione di politiche di gestione e produzione della fabbrica, atte a far considerare il lavoratore quale semplice oggetto, una rotella interscambiabile e modificabile a seconda delle condizioni tecniche e reali”.

Un dato di fatto simile conduce all’ambito che “definiamo incertezza economica. Che nasce perché il singolo lavoratore sente di poter essere sostituito in azienda, pur nella consapevolezza di essere un tassello indispensabile del processo economico. Il lavoratore vive quasi ogni giorno la contraddizione tra il lavoro quale fattore di produzione indispensabile di tutte le economie umane e il singolo lavoratore quale entità rimpiazzabile. Fa esperienza del fatto che il lavoratore sia in fin dei conti facilmente rimpiazzabile, che possa essere mandato via senza difficoltà e sostituito con qualcun altro. Se perde il posto, perde anche la sua unica fonte di reddito, esclusi i sussidi sociali garantiti. Se a causa di una crisi si ricorre al licenziamento, il suo senso di incertezza economica diventa sempre più dominante”.

Gli imprenditori che considerano la fabbrica alla stregua di un dominio e di una entità soggetta al loro potere, di norma non sono gran che disposti a far “dire la propria” ai lavoratori. “I lavoratori sanno che gli imprenditori non li considerano avversari alla pari dal punto di vista sociale, bensì scomodi intrusi, nonostante affermino il contrario. Anche un membro del consiglio di fabbrica a trattative concluse deve tornare al proprio posto e rimettere la propria persona al servizio del datore di lavoro; inoltre deve svolgere un lavoro dipendente e deciso da altri, rivivendo di nuovo una strumentalizzazione”. Per questo spesso e volentieri una collaborazione nel verso senso della parola è vissuta dagli imprenditori come un declassamento sociale. “Chi è a conoscenza della scarsa capacità di immedesimazione da parte degli imprenditori tedeschi, vi individua la causa delle tensioni tra la classe dirigente e le maestranze”. L’articolo prosegue con queste parole: “In materia di organizzazione aziendale, si generano illusioni nuove: le human relations (cura dei rapporti umani). Negli ultimi anni è emerso che soprattutto dove si sono chiamati in causa i principi di psicologia di questo fenomeno modaiolo di una vita aziendale votata a comprendere “meglio” il lavoratore e le sue doti e qualità, il fenomeno aveva come scopo uno sfruttamento ancora più intensivo della forza lavoro. Per questo non ci si deve stupire del perché la spumeggiante onda di entusiasmo nei confronti delle human relations si sia lentamente placata e abbia lasciato giustamente spazio allo sconforto. La socialità vissuta dal lavoratore non si fa interpretare e modificare più di tanto da espedienti psicologici”.

Il giornalista domanda quindi “In che modo è possibile creare un legame animico-spirituale tra lavoratore e datore di lavoro [...] in cui il primo è costretto da subito a farsi tramite di una concezione stereotipata, impersonale e burocratizzata del lavoro, in cui è considerato come un oggetto sostituibile in qualsiasi momento? Nella fabbrica lavora accanto ad altri che nella maggior parte dei casi non ha mai visto prima e dalle cui idee e dai quali comportamenti tuttavia dipende il suo benessere, e dalla cui capacità o inettitudine dipende il suo stipendio, se non la sua vita. Per questo tra lavoratori vengono a crearsi comunità che spesso sono più forti di certi legami tra familiari. I rapporti umani tra lavoratori all’interno della fabbrica creano comunità vere e proprie, che trovano espressione soprattutto nella solidarietà sindacale”.

Tuttavia “di norma nella polarità datore di lavoro-lavoratore non esiste alcun legame animico-spirituale”. A questo proposito sono pertinenti le parole di Helmut Schelsky, secondo il quale “nel concetto di comunità [...] si finge un rapporto sociale caratteristico dell’intimità e dei legami tra le persone, il quale per la sua doverosità etica[3] non appartiene alla fabbrica e non esiste nemmeno sotto altre forme nelle fabbriche industriali più grandi di quelle artigiane”. Il giornalista conclude dicendo: “Pertanto a onor del vero nessun lavoratore, né consiglio di fabbrica né sindacalista dovrebbe tollerare che i suoi rapporti, mirati a un qualche scopo, con i datori di lavoro siano mascherati dal concetto di comunità e in tal modo ricevano un’impronta di falsità. Ripartiamo dall‘inizio. La fabbrica non ha la struttura di una comunità, ma di una società. Non è “un’associazione naturale” e nemmeno una “forma originaria del vivere sociale”, ma “un’unità artificiale”, creata dall’uomo per mezzo del suo libero arbitrio. All’interno della società industriale, la fabbrica industriale non può trasformarsi in comunità. Si dovrebbe smettere di usare senza senso in ambito aziendale questo concetto che dovrebbe scomparire dal lessico di quella che dovremmo chiamare Sociologia”.

Ci è sembrato doveroso citare il più possibile l’articolo, vista l’analisi che contiene. E adesso ci si può chiedere, se è per una legge incontrovertibile o un destino ineluttabile che la fabbrica non è né può essere una struttura “comunitaria”, bensì un‘“unità artificiale”, destinata a essere un eterno campo di battaglia tra i due rivali datore di lavoro e lavoratore e dove in sostanza “le persone restano divise malgrado tutti i legami” (Tönnies).

Questa analisi precisa, che all’apparenza non lascia spazio di manovra a favore di una collaborazione vera e propria negli ambienti della produzione industriale nemmeno per il futuro, altro non è che la descrizione di un dato di fatto sociologico, per non dire del quadro clinico di una comunità produttiva basata sulla divisione tra persone e strumenti di lavoro, derivante dal concetto statico di proprietà dell’epoca romana.

Una comunità di fabbrica grazie a un nuovo diritto di proprietà

Non vogliamo dire che i quattro vizi di fondo della moderna condizione sociale, come li descrive Sandvoss, di colpo sparirebbero se la proprietà dei mezzi di produzione – separata dalle maestranze, soggetta a movimenti (perlopiù dovuti all’andamento della borsa) e trasformatasi in valore fungibile – fosse neutralizzata da uno stato di diritto basato sull’incommerciabilità. Si dice solo che sarebbe la chiave giusta per aprire quello spazio comunitario, sostanzialmente nuovo, provvisorio e non ancora compreso, per il quale la parola “comunità” sarebbe senz’altro azzeccata, quantunque in un senso affatto stucchevole rispetto al passato, in cui la comunità si fondava su una coesione più o meno “naturale” e obbligatoria. Questi legami naturali erano sempre forme di costrizione. La novità di oggi sono le comunità frutto di una libera scelta, contrapposte a quelle del passato, perlopiù fondate su legami di sangue e una volontà comune finalizzata alla produzione di un fabbisogno di consumo sociale (alle quali lo storico concetto di clan conferisce un che di “rancido”, contro il quale si pone, a ragione, l’autore del citato articolo). Nella questione della proprietà “pura e semplice” non c’è la soluzione, mentre solo un nuovo ordinamento giuridico relativo alla proprietà costituirebbe il presupposto perché tutti e quattro gli effetti sociali di uno strumento collettivo e indipendente, ben descritti nell’articolo, facessero ritorno a un rapporto tra gli individui all’interno della fabbrica; e che gli impulsi sociali diventino possibili, laddove oggi a causa della divisione (a partire dalla nascita del concetto di proprietà statica in poi) ciò che inevitabilmente si sviluppa sono forze antisociali, che non si possono evitare né con la forza di volontà né con “human relations” sincere, in quanto frutto dell’affettazione. Oggi l’uomo si trova dentro alla fabbrica, perché vuole morire come individuo, vittima del suo subconscio attraverso avvenimenti non naturali in cui lavora, pur essendo ragionevolmente intenzionato e disposto a riconoscere e ad ammettere la compiacenza del datore di lavoro o del “capitale”. In questo consta il cardine di tutti i problemi sociali derivanti dal “concetto di proprietà puro e semplice”. Questo concetto di proprietà è una minaccia costante al diritto individuale con cui l’uomo nelle condizioni attuali deve fare i conti per dire di no. Ci serve un diritto di proprietà che anche in fabbrica non violi questa personale condizione di diritto. La soluzione al problema sulla proprietà è la chiave che apre la porta a un nuovo orientamento di tutti coloro che lavorano insieme in una fabbrica. Si potrebbe dire che le maestranze potrebbero e dovrebbero smettere “di avere uno sguardo strabico”: a causa della “determinazione altrui” dovuta all’orientamento bilaterale, le maestranze sono costituite dentro al loro lavoro collettivo dalla proprietà dei mezzi di produzione separata, in un certo qual modo da un asse di interessi divergenti. Si tratta di grandi forze scatenate dall’antico ordinamento romano statico nelle società industriali di oggi; le quali hanno dato inizio a uno sviluppo vorticoso, causa anche di grandi preoccupazioni. È vero che queste forze egoistiche della natura umana derivanti da tale concetto di proprietà hanno fatto raggiungere, come per magia, risultati tecnici di enorme portata; ma solo in futuro l’avvelenamento mortale dell’organismo sociale della nostra società, senza coperture né edulcorazioni, uscirà del tutto allo scoperto grazie al “luogo comune della comunità”. Ora lo “sguardo doppio” attraverso lo stato di proprietà finto-privato o pubblico non consente alle imprese di crescere unendosi di propria spontanea iniziativa per uno scopo comune. Il mezzo di produzione, in quanto capitale indipendente, non è più il mezzo finalizzato a una produzione di oggetti del bisogno nell’interesse del prossimo in senso diretto, ma lo è solo in modo indiretto. La produzione di per sé è una sorta di “prodotto di scarto” di un altro scopo, ovvero dello “scopo (effettivo) di trarre profitto, per un fine prefissato da altri (il proprietario)” (Sandvoss) o imposto dallo Stato. Da ciò nasce questo “sguardo strabico”, derivante da una costrizione non corretta della politica produttiva e sociale e attraverso il quale il lavoratore altro non è che un “oggetto”, anche se la sua caratteristica di soggetto (di diritto) resta (in teoria) indiscussa. Lo “sguardo doppio”, considerato l’asse di interessi divergenti, sorto dall’indipendenza del mezzo di produzione quale proprietà altrui all’interno della fabbrica, deve prima essere ben compreso analizzando il polo opposto del capitale dell’impresa: il potere del sindacato che influisce sull’impresa. Non più immaginabile senza il mondo dei capitali privati. L’impresa viene fatta a pezzi su due fronti: si crea un gioco di forze, tra le quali l’uomo deve sopravvivere solo come “oggetto”, non quale “rotella interscambiabile”, ma come una pedina. Tanto si è reso necessario sviluppare forze nelle istituzioni per contrastare il padrone e l’arbitrio dei proprietari – un rappresentante dei lavoratori –, tanto poco costruttive potevano essere tali forze, grazie al loro antagonismo nei confronti di obiettivi “comuni” e dell’impulso lavorativo. In questo modo lo sguardo viene distolto doppiamente dagli scopi sociali e di economia nazionale – il compito della fabbrica –, pregiudicando la produttività e disturbando la crescita comune, verso un’unione, la convivenza e l’intesa in prospettiva dei compiti sociali della produzione. Dove porterà in occidente il contrasto tra gruppi di potere, da un lato chi acquista il lavoro (le associazioni industriali) e dall’altro chi lo vende (i sindacati), non è prevedibile; lo slancio sociale che ha i suoi effetti su questo contrasto consente di raggiungere un equilibrio solo temporaneo e non durevole.

La proprietà organizzata dei mezzi di produzione come quella attuale, che comprende i mezzi del collettivo di diverse forme, ha bisogno della mente spirituale, e di tutte le maestranze, mentre non ha affatto bisogno dell’azionista né dello Stato, di qualsiasi tipo essi siano. La diffusione della proprietà (“un popolo di proprietari piccoli azionisti”) nell’ottica di una riorganizzazione sociale nelle fabbriche, è a tutti gli effetti paradossale. Questo tentativo di stabilizzare l’ideologia liberale e del capitale privato potrebbe finire in niente; esso è nato dall’antitesi ideologica con la proprietà collettiva comunista, non dalla comprensione dell’essenza della proprietà dei mezzi di produzione. Quindi tutti gli azionisti, ovviamente solo nella loro funzione di proprietari, potrebbero sparire in un attimo, ovvero non funzionare più (ad esempio con la conversione dei loro prestiti redimibili della fabbrica), senza che nulla cambi, purtroppo, a livello di funzioni e di produttività. Al contrario: lo sguardo di chi è coinvolto sarebbe libero e in grado di focalizzarsi sull’obbiettivo della produzione e sui problemi inerenti la collaborazione. Tre dei quattro punti negativi subirebbero un cambio repentino: la dipendenza da capitali esterni alla fabbrica, la conseguente determinazione altrui, la strumentalizzazione quale espressione del carattere soggettivo di chi appartiene alla fabbrica e ci lavora. In questo modo, però, il quarto punto negativo – l’incertezza economica – non subirebbe un peggioramento?

Le funzioni sociali dei mezzi di produzione

Venendo meno la proprietà quale soggetto giuridico indipendente, in materia di mezzi di produzione le conseguenze sono di due tipi:

  1. il fatto che la trasferibilità della proprietà e il diritto di disporre e di utilizzo alle persone coinvolte continuino ad esistere
  2. la questione della funzione sociale del mezzo di produzione

Esse si concentrano sostanzialmente sul disporre dei mezzi di produzione in termini di economia nazionale e sulla problematica della ripartizione dei profitti (la rivendicazione dell’uso da parte delle maestranze e il diritto dell’opinione pubblica alla debita partecipazione alle attività di tipo sociale, spirituale e pedagogico). Intanto il diritto alla proprietà privata sui mezzi di produzione aveva incluso un dominio, cui sostanzialmente mancavano queste competenze e in questo modo ha costituito il proprio potere. E il loro impiego poteva essere solo privato. Con l’abolizione del “dominio sulle cose” derivante dalla proprietà da parte di un possessore esterno, i poteri che hanno portato ai primi tre punti negativi dell’articolo di Sandvoss sono stati eliminati; La non commerciabilità e la non ereditarietà della proprietà sui mezzi di produzione è il presupposto allo sviluppo di unità organiche dell’organismo sociale tra gruppi di persone e i collettivi degli strumenti, organizzate come cellule di un organismo vivente; esse trasmettono continuamente la sostanza dei mezzi di produzione a individui detentori, che per ragioni di competenza e conoscenza specifica si combinano alla rimanente sostanza dei mezzi di produzione, li rinnovano di continuo e attraverso il dare o l’avere dalla produzione da un lato e il sostentamento dall’altro, costituiscono una parte della forza fisica e spirituale del corpo sociale. Non hanno più bisogno di avere uno sguardo “strabico”, poiché in questa trasferibilità continua, ovvero la singolare correlazione naturale e giuridica tra uomo (in quanto detentore della prestazione lavorativa e della funzione spirituale) e il collettivo degli strumenti, la funzione delle cellule organiche non subisce alcuna interferenza da parte di campi di forze esterni finalizzati al profitto (cui appartengono sia i possessori di capitali sia i sindacati).

La funzione sociale dei mezzi di produzione (per la quale il Comunismo ritiene si debba fare una rivoluzione mondiale) porterà al costituirsi di nuovi organi comunitari, che riuniscono e risucchiano direttamente la produzione e il consumo. Associazioni di produttori, commercianti e consumatori. L‘attenzione delle maestranze può così concentrarsi sui compiti della produzione e quindi sui consumatori come veri e propri committenti. Questa copertura del fabbisogno sociale potrà essere percepita come compito sociale da parte di tutte le maestranze incluse le posizioni manageriali, mentre oggi non è altro che un prodotto di scarto del desiderio di guadagno. Questa rete associativa garantisce con facilità processi organici, privi di burocrazie e di pianificazione dall‘alto, e tuttavia caratterizzati da razionalità e socialità; una copertura del fabbisogno a tutti gli effetti, che non abbiamo visto concretizzarsi né nelle economie di mercato né nel sistema di economia pianificata[4]. Resta ancora da stabilire che alla componente spirituale dell’organismo sociale – quale forza che attraverso l’educazione, la scienza e la formazione ha reso possibile la messa a disposizione dei mezzi di produzione e ha creato la competenza necessaria per lavorare con essi – spetta il diritto ad una parte equa dei proventi. Questo elemento spirituale sarà in grado di far valere le proprie richieste attraverso una delegazione di persone competenti nell’ambito della gestione del capitale. In questo senso i proprietari del collettivo di strumenti, cioè l’insieme delle rispettive maestranze, prenderanno debitamente in considerazione e riconosceranno i diritti; diritti che altrimenti non verrebbero presi in considerazione, finché esisterà il possesso di un capitale vendibile ed ereditabile. Adesso potranno vedere nel concreto che a partire dalla formazione, i mezzi di produzione quali strumenti saranno consegnati alle maestranze in ragione delle competenze conferite per costruirli e utilizzarli; solo così potrà trovare riconoscimento anche una contropartita, basata su una libera trattativa come ulteriore sostanza giuridica “naturale” del mezzo di produzione all’interno del processo produttivo. Alla domanda se in questo modo il quarto punto negativo, ovvero l’incertezza economica di chi lavora nell’industria non si aggravi, la risposta appare semplice: in un’economia di tipo associativo cui si è fatto cenno, la disoccupazione, ovvero il flagello dell’era industriale, dovrà scomparire. Il che accadrà grazie a un‘analisi concreta della collocazione organica di produzione, circolazione e consumo per il fabbisogno reale; gli scioperi o le serrate, causa di ulteriori perdite economiche e di disturbi sociali, non avranno spazio perché mancherà loro il terreno su cui instaurarsi.

La triplice funzione vitale della cellula produttiva

Abbiamo parlato del carattere unitario dell’antico diritto tedesco e del fatto che tutti gli elementi sostanziali da cui è costituito (staticità, dinamicità e polarità tra pubblico e privato), pur facendo parte di un unico corpus sociale, hanno funzioni diverse; del come la messa in pratica unilaterale di taluni aspetti parziali del diritto debba generare rapporti sociali dignitosi, e in ultima analisi di come per ragioni giuridiche si sia giunti al conflitto tra Est e Ovest. Quando lo sviluppo era agli esordi, il legame tra uomo e strumento non era affatto un problema; e questo dipendeva dal fatto che gli strumenti fossero ancora primitivi e che il rapporto e la posizione dell’uomo rispetto a loro all’interno della società dipendesse da un ordine sociale esterno (di natura spirituale e religiosa) che interveniva e plasmava. In seguito si è avuto un rovesciamento a livello delle forze sociali organizzative, con una scossa per intensità simile a una rinascita, generato dalla presa di coscienza dell’uomo-individuo di sé come personalità (cosa che ha reso inaccettabile la schiavitù come principio fondante dell’ordinamento sociale) e dalla differenziazione dei processi lavorativi. A un potere regolatore esterno si dava un credito sempre maggiore. All’inizio il sistema sociale era più che altro un’entità di natura spirituale, che in un certo qual modo dirigeva i sistemi sociali fisici e ne muoveva i fili, tanto che oggi il sistema sociale sta per assumere un carattere fisico-spirituale – simile all’uomo – la cui funzionalità dipende dalla posizione legittima (per legge) e (cor)retta dell’individuo all’interno del sistema sociale. Oggi dunque la funzione primaria del diritto non è più legata al potere, ma è di tipo vitale.

Tutte le funzioni vitali hanno un triplice aspetto. La funzione vitale di una cellula produttiva – ivi comprese tutte le sue attività connesse all’organizzazione del sistema sociale nel complesso – non si determina semplicemente in base alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se dal punto di vista giuridico ciascun individuo che lavora con il collettivo degli strumenti e quindi deve disporre di un proprio potere fisico e spirituale sugli stessi, con i mezzi di produzione ha un rapporto di proprietà di vecchio stampo, finché per lavorare esisterà questa connessione tra uomo e strumento. A questo si aggiunga d’altro canto che dal legame tra il singolo uomo, questo strumento e il collettivo delle persone debba dipendere il suo diritto di ricavare il proprio sostentamento come contropartita delle altre produzioni. Una contropartita che egli non ottiene in base al valore in capitale delle proprie sostanze (che non corrisponde in quanto tale al suo valore d’uso diretto), ma perché in quanto appartenente a un gruppo di persone ha lavorato con il collettivo degli strumenti impiegandoli come strumento da lavoro (e non come valore in capitale) per la comunità. Il capitale nell’ambito del collettivo degli strumenti è, in verità, una voce attiva della società intera; alla sua realizzazione hanno contribuito tutti. In questo senso la società ha diritto non tanto alla proprietà o al capitale (come erroneamente si pensava durante il Comunismo), ma alla produzione e a quella parte di utile da riutilizzarsi come una sorta di semenza, allo scopo di far scaturire dalla vita culturale competenze nuove negli individui, i quali poi le metteranno a frutto nel processo produttivo. Questa fattispecie non riguarda più il costituirsi di una proprietà statica, ma un processo ciclico, dinamico in tutto e per tutto. Il concetto statico di proprietà come quello romano da tanto tempo non gli si addice più, dove dal diritto di proprietà nasceva il non-diritto alla proprietà, in una realtà sociale basata sulla divisione del lavoro e che nella sua totalità si fonda sulla reciprocità, dove nessuno può esistere senza tutti gli altri. Da qui è nato un corpus sociale umano, che grazie ai potenziali traffici è sempre più esteso, comprendendo già oggi tutta la terra, e che in termini di economia mondiale si sta trasformando in un sistema sempre più fitto e globale.

Questa dinamica esige una struttura sociale basata sull’individuo, sulla circolazione e il credito degli uni per gli altri, tanto che in futuro resterà la “proprietà a tempo” (le maestranze) non più come potere legittimo dato dalla proprietà, quanto come “entità giuridica, isolata e senza legami dell’entità economica”. Alla dinamicità individuale (dovuta alle capacità dell‘uomo) si aggiunge il suo entrare a far parte della dinamicità sociale nella sua totalità. Per questo la “proprietà a tempo” è anche proprietà di nessuno (secondo la vecchia accezione di vendibilità ed ereditarietà), perché è immersa in un movimento incessante all’interno di un gruppo di persone che si rigenera di continuo, un’entità vivente di per sé nel legame con le persone che vi appartengono, e non tanto una “cosa” morta come nella concezione di proprietà del diritto romano. La cosa come soggetto di diritto in questo senso non è più in primo piano, dove restano le forze individuali attive, diventate dominanti nel loro essere personalità spirituali e soggetti giuridici, grazie al loro carattere giuridico individuale. La differenza ora esistente a livello giuridico tra proprietari e maestranze non esiste più.

Infine un terzo e nuovo aspetto è il fatto che quando si parla di mezzi di produzione industriali, i cosiddetti “mezzi di produzione artificiali”, non li si considera naturali. In passato i mezzi di produzione naturali (il suolo) erano le realtà (giuridiche) più elementari tra i mezzi di sussistenza sociale; della loro presenza si ringraziava la Divinità, da cui le si prendeva “in prestito”, perché la terra “apparteneva” a lei, che donava mezzi di sostentamento all’uomo senza che questi prendesse parte alla loro realizzazione. Non è stato il potere divino, ma la forza spirituale dell’uomo intellettualmente avanzato a creare i mezzi di produzione artificiali, ovvero le macchine del collettivo. Che però sono state il frutto dello sviluppo intellettivo continuo di tutti, anche se nate dall’idea geniale di un singolo. Ciascun inventore o scopritore non sarebbe riuscito a fabbricarle senza le conoscenze già esistenti e l’aiuto di tutta la comunità. Per questo motivo i grandi matematici sono tuttora compartecipi della creazione di tutte le opere tecniche degne di nota. Per questo motivo si torna a vedere tutti i mezzi di produzione come una “proprietà” generale e quindi sociale, ma non nel senso datole dal diritto romano, secondo cui poteva essere attribuito un diritto di disporre o di esercitare un potere “allo Stato” o “al popolo”. Questo diritto giuridico e sociale sui mezzi di produzione non può affatto essere visto come un diritto simile a quello di proprietà, quanto piuttosto un diritto a una contropartita commisurata alla prestazione data da parte di un potenziale spirituale e sociale. La prestazione spirituale è alla base di una partecipazione materiale del membro spirituale al profitto, quale contributo al mantenimento della propria esistenza fisica.


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2. Capitolo4. Capitolo
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Note:

[1] Francoforte, n.6/1959, articolo di Herbert Sandvoss.

[2] Walter Erman, Handkommentar zum BGB [commento al Codice civile tedesco], seconda edizione, Münster/Westf. 1952, pagg. 1400 e seguenti.

[3] per Helmut Schelsky, i rapporti sociali intimi tra le persone hanno insito un senso del dovere che non è proprio dei rapporti all'interno della fabbrica. N.d.T.

[4] Potrebbero verificarsi altri impulsi lavorativi rispetto a quelli che conosciamo, e in questo modo si potrebbe avere un aumento considerevole della produttività grazie a un’economia basata sulla suddivisione del lavoro, all’incirca come disse Henry Ford junior anni fa durante un discorso tenuto presso le officine Ford di Colonia.