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La proprietà dei mezzi di produzione



Secondo capitolo
Tendenze del diritto di proprietà

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Se il togliere la proprietà dei mezzi di produzione a chi ne fa uso per il proprio lavoro non è che un aspetto del problema che pone interrogativi circa la proprietà del mezzo di produzione dal punto di vista sociologico questo fatto diventa d'importanza fondamentale. In senso più profondo, invece, la questione ruota attorno alla natura giuridica del mezzo di produzione. Chi possiede il capitale, l’azionista, l’imprenditore, quale proprietario, in base alle norme in vigore all’Ovest esige che lo Stato salvaguardi questo diritto di proprietà personale sui mezzi di produzione.

L’Est ha messo fine a questo diritto. Lo Stato rivendica sé i propri diritti di proprietà. La terza parte, quella maggiormente coinvolta, che nel processo di produzione del collettivo lavora con i mezzi di produzione, non è nell'indagine sul diritto di proprietà. Diversamente dagli altri due — che avanzano diritti di proprietà per sé o per la comunità — questa non riesce a dare una giustificazione convincente al diritto di proprietà dei mezzi di produzione in base a norme giuridiche, anche se le spetterebbero per prima. Come si è arrivati a una condizione simile?

Senza dubbio l’ordinamento giuridico oggi in vigore all’Ovest rispetto al passato tiene in maggior conto i “diritti inconfutabili delle maestranze sul posto di lavoro”, ovvero attraverso le limitazioni al potere cui in una certa misura è sottoposto il privato, non potendo egli agire a propria discrezione come ai tempi del primo capitalismo: le maestranze o l’opinione pubblica minaccerebbero la chiusura, la demolizione e il cambiamento della missione aziendale a proprio arbitrio. Ma questo non in ragione del rapporto di appartenenza “lavoratore-strumento”, e quindi in base a una nuova idea di diritto, bensì a fronte di un'evoluzione di un diritto sociale mirato a rendere giustizia all’esistenza economica delle maestranze. Questa limitazione alla facoltà del singolo di disporre della proprietà privata sui mezzi di produzione non è un derivato della sostanza giuridica del diritto di disporre liberamente di una cosa, tuttora riconosciuto e connesso alla proprietà, ma di un obbligo sociale di tipo pragmatico: “la proprietà impone degli obblighi” (art. 14 Legge fondamentale).

I moderni poli opposti delle maestranze — il proprietario e lo Stato — fanno valere i propri diritti di proprietà sui mezzi di produzione attraverso motivazioni storiche o sociali. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 si dice: “La propriété est un droit inviolable et sacre”[1]. Istinti primordiali — si potrebbe dire — rimandano al concetto di sacralità della proprietà privata, sebbene per i poteri capitalistici dell’Ovest — basti pensare all’andamento della Borsa — nei mezzi di produzione ci sia ben poco di “sacro”. Questa tradizionale idea di sacralità è un anacronismo sorto sulla base di rapporti sociali di altro genere appartenenti al passato. Alla luce delle attuali condizioni essa appare una costruzione giuridica con una propria finalità.

Sorprende che anche in materia di proprietà sociale entrino in gioco queste idee anacronistiche su cui si fondano le rivendicazioni della società o dello Stato. L’identità di Stato e società nell’organizzazione comunista assume la stessa accezione di rappresentanza “sacra”, come accade all’Ovest tra la proprietà privata e il diritto “sacro”. In questo modo il concetto giuridico di proprietà ha raggiunto un grado di semplificazione tale da non riuscire a penetrare la complessità dei mezzi di produzione del collettivo moderno. Lo Stato è identico alla società proprio come i mezzi di produzione nelle mani di un privato sono identici alla libertà individuale, al possesso consumistico da garantire attraverso la legge (privato viene da privare, cioè rubare). In entrambi i casi in base a un antico valore giuridico e sacrale, si avanza una pretesa non più fondata sul reale, ma che rappresenta invece un ”arrogarsi di diritto”.

Sviluppi storici e antitetici del diritto

Nella disciplina della proprietà privata del regime comunista, come si è visto, lo Stato è il rappresentante di tutti e rivendica per sé la proprietà dei mezzi di produzione nell’interesse della collettività. L’articolo 21 del codice civile sovietico dice: “la terra è proprietà dello Stato e non può essere oggetto di scambio tra privati”. E lo stesso principio vale sia per i mezzi di produzione naturali sia per quelli prodotti dell’economia; sono proprietà dello Stato a fronte di una rivendicazione indiretta di diritto dello Stato a favore della società. I diritti del proprietario privato all’Ovest si fondano sul concetto generale di proprietà del diritto romano, che mette la persona al centro come soggetto di diritto. In netto contrasto è il diritto sovietico, con la sua idea di sviluppo delle forze produttive della terra, che vengono prima del singolo proprietario e hanno un ruolo fondamentale al posto della persona. Il loro rappresentante è lo Stato. In entrambi i casi il costituirsi delle leggi è sintomo di una unilateralità. L’odierno contrasto politico e sociale tra queste due concezioni non è qualcosa che esiste di per sé, ma un effetto dell’unilateralità con cui ogni sistema espressamente costituisce e sopravvaluta parte del carattere giuridico del mezzo di produzione. La causa di questa unilateralità è in buona parte da ricondurre al passato irrisolto del diritto storico.

Otto von Gierke, grande maestro di diritto del secolo scorso, tratteggia i caratteri essenziali del diritto romano da cui ha avuto origine il concetto di proprietà: “I romani non avrebbero mai accresciuto l’eredità dell’uomo avendo in mente pari diritti per lo Stato, se non avessero messo in atto la contrapposizione tra ius singulorum e ius populi per mezzo di una unilateralità forte. Da una parte la sovranità dell'uno e un potere statale indivisibile, dall’altra la sovranità dell’individuo, che rappresentavano le grandi leve della storia del diritto romano”[2].

Hans Fehr, illustre giurista del secolo attuale, a questo proposito dice: “per il diritto romano il singolo è come un carro armato. La sua volontà è sovrana. La persona ha potere legislativo, un potere che contrappone lui stesso e le sue proprietà a tutto il resto. Il diritto romano è un insieme spropositato di diritti del singolo, del signore. La proprietà romana è un soggetto di diritto che sussiste nella vita economica svincolato da tutto. Ha solo antagonisti. Chi la intacca, diventa un nemico. E ben distinto dal singolo, lo Stato domina per mezzo del diritto pubblico. Anche allo Stato non è nota nessuna intrinseca connessione organica tra cittadini. Lo Stato non è un'entità viva ma esiste in ragione di un contratto tra esso e il singolo. Se vi è uno Stato, esso troneggia maestoso su chi ne fa parte. Un parametro singolare, con diritti e doveri tutti suoi. Il cittadino non vi si può avvicinare e risponde con l'ubbidienza, sempre mantenendo le distanze. Ma si resta ubbidienti solo fino a quando lo Stato non fa incursione nel sacro mondo del diritto privato. Questo segna il confine”[3].

Il diritto romano è sostanzialmente antitetico. Al contrario, come dice Fehr a proposito del diritto tedesco antico, per i tedeschi la legge era un sistema univoco: “poiché la vita non è un concetto divisibile, lo spirito tedesco non ammette fratture in materia di diritto. La contrapposizione tra diritto pubblico e privato gli è estranea. Il singolo vive il diritto in comunione con gli altri. in quanto membro di una comunità, nella sua vita esiste una sola valenza di diritto. Innumerevoli forme associative, a partire dalla famiglia che l’una sull’altra incasellano la vita fino ai gradini più alti, fino allo Stato. Migliaia di fili che si muovono su e giù. Il diritto è simile a una ragnatela senza centro. E lo stesso vale per la proprietà, in particolare quella della terra. Non esistono muri nemici che mettono gli uni contro gli altri. Della famiglia, dei vicini, del padrone, dello Stato si deve avere rispetto. Il proprietario deve adempiere agli obblighi derivanti dal suo terreno, come ad esempio garantire la presenza di un esercito o del tribunale. Diritti e doveri sono strettamente connessi. Con la forza dell’unione e della concatenazione associativa il sistema di diritto intende esser una guida per l’uomo nel corso della sua vita."[4]

Nell’antico sistema giuridico tedesco il dualismo tra individuo e società del diritto romano era ancora racchiuso all'interno di un'unità comprensiva; esso non era ancora nelle condizioni di differenziare la sostanza del diritto. Tuttavia non è stato il diritto, bensì quello ad avere la meglio; la realtà del diritto tedesco dal XVI fino alla metà del XVIII corrisponde all’immagine seguente: “Il diritto romano si è riversato su quello tedesco con la forza di una cascata. Ha schiacciato la legge del posto o l’ha soppiantata del tutto•portando in trionfo la separazione dei concetti di diritto individuale e diritto pubblico. E quasi tutti gli uomini di legge vanno fieri di questo dualismo".[5]

Diritto statico e diritto dinamico

Al tempo in cui nella civiltà germanica esisteva ancora un diritto sostanzialmente univoco e si sono fatti strada i fondamenti del diritto romano dualistico, i rapporti sociali erano diversi anni luce da quelli odierni; diversa era anche la consapevolezza che le persone avevano di sé e del mondo. La moderna società industriale, rispetto a quanto accadeva nella struttura sociale romana o antico-germanica, pone altre condizioni all’ordinamento giuridico per soddisfare i bisogni sociali. Oswald Spengler, attraverso i concetti di diritto statico e dinamico, descrive il fenomeno in questo modo: “il diritto antico era un diritto di corpi; il nostro è un diritto di funzioni. I Romani crearono una statica giuridica, mentre a noi tocca una dinamica giuridica. Per noi le persone non sono corpi, ma unità di forza e volontà e le cose non sono corpi, ma obiettivi, mezzi e creazioni di queste unità. La relazione antica tra corpi era la posizione, quella tra forze invece si chiama effetto...tuttavia per noi l’organizzatore, l’inventore o l’imprenditore possiedono una forza creativa che agisce su altre forze attuative, dando loro una direzione, un compito o un mezzo utili a ottenere un’efficacia. Entrambe appartengono alla vita economica, non per il possesso di cose, ma per le energie di cui dispongono."[6]

Grazie a questa concezione è possibile analizzare ancora meglio il processo di trasformazione del diritto di proprietà odierno: nell’antico diritto organico gli elementi statici e dinamici erano strettamente intrecciati tra loro. La parte statica connessa alla persona risiedeva nell’essenza delle forze creative storiche e sociali, che nella percezione del diritto della romanità dovevano costituire il diritto individuale. Il dualismo di questo diritto romano consta in un diritto di proprietà romano che, esattamente come il diritto individuale innato, in quanto diritto patrimoniale è “isolato”, cioè solitario e senza collegamenti nell’ambito della vita economica.

Fehr sottolinea che come si prendeva sul serio il dominus come un autentico signore, lo stesso accadeva con i suoi possedimenti. Da allora in poi l‘autonomia è diventata causa storica della sostanza giuridica del mezzo di produzione moderno. In questa unilateralità della proprietà, determinata dal diritto individuale, il diritto di proprietà romano è diventato statico. A fronte del recepimento del diritto romano, dal diritto di proprietà statico si è sviluppata la moderna consapevolezza civile. Anche se in forma più attenuata, nella sostanza il diritto di proprietà statico è entrato senza variazioni a far parte dl stile di vita industriale profondamente mutato del nostro tempo (ed è tutt’oggi considerato il segno distintivo della mentalità borghese).

Il contenuto dei paragrafi sulla proprietà del diritto regionale prussiano del 1786-1899 lascia intendere questo assunto: “per proprietà si intende la facoltà di disporre della sostanza di una cosa o di un diritto in maniera esclusiva e a fronte di un potere personale". “Questa", dice Fehr, “è una visione molto romana. Una concezione secondo cui la proprietà deve essere liberata dalle barriere dettate dalla vicinanza, dalla parentela e dalla comunità. A dominare sono il piacere e l’arbitrio. Qualsiasi limitazione è estranea alla proprietà.”

In contrapposizione all’unilateralità individualistica del diritto romano statico proprio del dualismo del diritto romano, non si può parlare di una unilateralità dinamica del diritto tedesco organico delle origini e del diritto di proprietà, malgrado questo sia caratterizzato da maggiore dinamicità rispetto al quello romano (come vedremo, nel diritto sovietico del nostro tempo, la bilancia pende a favore della dinamica).

Poiché il dualismo del diritto romano non era ancora compenetrato nel diritto tedesco delle origini, l’unitarietà si basa su un principio universalistico e organico. In questa esecuzione organica rientrava anche il diritto patrimoniale. Che Fehr descrive con queste parole: “l’antica proprietà tedesca, ove presente, ha acquisito limitazioni di tipo intrinseco. In origine era frutto di una decisione della famiglia o della comunità e da ultimo dello Stato. Se per ragioni di vicinato era proibito canalizzare l’acqua o rubare la luce ai residenti, ciò non era percepito come limitazione. Il rispetto degli altri era insito nella natura della proprietà. I diritti d’uso e di godimento, quelli reali e di disporre connaturati alla proprietà, dal punto di vista dinamico hanno trovato un legittimo confine intrinseco nei diritti degli altri•il diritto patrimoniale tedesco non è incentrato sulla proprietà. Solo di rado nel linguaggio giuridico tedesco più antico si usava l’espressione “proprio” per riferirsi alla proprietà. Il concetto basilare del diritto patrimoniale era l’attività. Parola non sostituibile né con possesso né con proprietà. Che sono concetti statici e materiali. L’attività è un concetto dinamico che non si lascia inquadrare dalla mentalità romana. L’attività è una funzione.”[7]

Andamento intrinseco ed estrinseco dell’evoluzione del dritto

La sostanza giuridica del diritto tedesco non ha subito nessuna evoluzione a causa della sua unitarietà. Di frequente si definisce la successiva e necessaria evoluzione del diritto di proprietà secondo il pensiero romano come un declino tragico di una vita giuridica vivace e organica attraverso l’applicazione di un diritto senza vita, formale e estraneo alla realtà quale quello romano. Anche le parole di Fehr che descrivono questa evoluzione esprimono un certo rammarico: “Tuttavia nel corso dei secoli questa mentalità tramontò. Vinse il concetto statico. Una volta acquisito il diritto romano, la proprietà si rivelò sempre più come una grandezza materiale. Nella sostanza i suoi contenuti si definivano illimitati•qualsiasi limite alla proprietà era di peso e interferiva con l’illimitatezza che le era propria. Restando sempre estraneo all’essenza della proprietà. Questo è il punto.[8]”

Questo processo non rimase limitato solo al diritto tedesco. Anche nell’articolo 544 del Code civil si dice: “La propriété est la droit de jouir d'une chose de la maniere la plus absolue”[9], quindi il diritto di disporne in modo assoluto. Nella misura in cui si diventa consapevoli del fatto che non è stato scardinato solo il diritto tedesco delle origini, ma anche che tutta la civiltà di allora partecipò attivamente a questo processo di evoluzione del diritto, si comprende meglio la contromanovra esercitata con terribile violenza nei primi decenni del XX secolo dalla concezione sovietica. Il diritto sovietico, che come abbiamo visto pone al centro le forze produttive della terra, ha quindi eliminato la staticità del concetto di proprietà dei beni patrimoniali secondo il diritto romano a favore di una unilateralità dinamica. Quali furono poi i diritti garantiti dal comunismo alle persone è la sua storia a raccontarcelo.

Sul principio del diritto statico romano (incentrato sulla persona) si basano sostanzialmente la garanzia del diritto e la fissità, che a suo tempo aveva stabilito la superiorità del diritto romano rispetto alle antiche riforme sociali, troppo instabili per stare alla base della struttura della società moderna in continua evoluzione e sempre più lontana dalla natura. Le ragioni della presenza di questa deviazione unilaterale dell’evoluzione del diritto proprio in Russia risiedono sia nella costituzione sociale sia nella stessa popolazione russa. I russi hanno una predisposizione per gli stati di tensione psichica permanente e il non-equilibrio. Prima dello scoppio della Prima guerra mondiale questo popolo viveva rapporti improntati alla tradizione in un’epoca di feudalesimo in declino. Il sistema gerarchico con la sua struttura statica non si confaceva alle relazioni moderne. Le tensioni individuali e sociali generate da questa staticità anacronistica, erano pronte a evolversi in altro, nell’estremo dinamico. Equesto cambiamento, dei vecchi rapporti personali e giuridici non è rimasto nulla. Nel diritto sovietico — e sorprendentemente in accordo con il concetto di dinamica del diritto di Spengler — tutto è teso all’effetto e agli scopi della cosa.

Decisiva non è più la sostanza del diritto, ma solo la sua funzione. Che non è più pensata come statica, ma puramente dinamica.[10]”

Il diritto soggettivo non esiste più di per sé, ma solo in riferimento allo Stato e al popolo. La proprietà privata sulla terra viene cancellata. Sui terreni è possibile esercitare solo il diritto d’uso. La proprietà fondiaria non può essere ipotecata, è inalienabile. Lo Stato può revocare il diritto d’uso in qualsiasi momento. Al centro del sistema di diritto sovietico non sta solo la proprietà individuale, ma il possesso necessario all’attività. Chi a tutti gli effetti usa la cosa e la amministra (per il bene del popolo), ha la precedenza sui proprietari; determinante è il legame economico fra persona e cosa. Quando cessa di esistere, viene meno anche quello giuridico. La proprietà non è garantita in quanto tale. “Questa innovazione”, dice Fehr, “è di per sé annunciatrice di un forte senso della realtà. Ma in Russia è stata ridotta a mera giustizia di classe.” Il carattere del diritto sovietico in questa unilateralità torna a essere organico: solo il diritto pubblico in forma dinamica ha un ruolo fondamentale e prevalente per la struttura della società, il diritto individuale è venuto meno e ha perso autorità.

Nel diritto antico e organico del popolo regnava ancora l’armonia tra gli elementi statici e dinamici del diritto. La loro evoluzione unilaterale storicamente sfociò in entrambi i casi in forme di assolutismo. L’assolutismo moderno era sorto sulla base del diritto individuale romano; solo apparentemente aveva a che vedere con l’usurpazione degli antichi diritti signorili di tipo spirituale-gerarchico. L’assolutismo dello Stato comunista rappresenta lo sviluppo unilaterale dello ius populi, del diritto dello Stato romano. Il potere assoluto degli alti funzionari dello Stato comunista è solo all’apparenza analogo a quello spirituale delle precedenti culture storiche. L’assolutismo del moderno signor denaro, dove il padrone della terra ha un ruolo centrale, è un anacronismo giuridico come il sistema dei poteri all’interno della piramide dei funzionari comunisti.

Il diritto individuale, quello democratico e quello sociale sono quindi diritti umani unitari, se una volta distinti, li si può riunire. “dovete distinguere e poi collegare” (Goethe).

Distinzione e riformulazione dei concetti del diritto di proprietà

Esiste una tipologia di proprietà particolare in grado di classificare il carattere giuridico statico nella sua forma più pura, nel mondo in cui si era evoluto a partire dalla mentalità giuridica romana. Si tratta di una proprietà ove l’uomo quale individuo è inquadrato come soggetto di diritto. Il fatto che l’individuo-uomo sia diventato un soggetto di diritto indipendente ha rappresentato una conquista storica del diritto romano. Il modo in cui questi progressi sono andati perduti, è presto spiegato: nel diritto sovietico l’individuo-uomo non è più un soggetto giuridico di per sé come per il diritto civile-romano. Se “la persona è riconosciuta come soggetto di diritto” è solo per “concessione dello Stato”. Perché senza questo riconoscimento statale ”le persone vagano come ombre nell’aria. Solo lo Stato le ingabbia e le trasforma in persone. La capacità giuridica è conferita a una persona al solo scopo di essere usata per scopi inerenti un‘attività. Lo Stato può quindi fare ciò che vuole dell’uomo e della sua proprietà” (Fehr). Non la propria soggettività giuridica rende l’uomo capace di possedere, ma quella dello Stato. All’uomo come soggetto di diritto personale appartiene la sua proprietà, poiché la sua natura (spirituale) lo rende “capace di possedere”. Ma si tratta di una proprietà molto personale di tipo speciale, che sta alla base dell’esistenza quotidiana civile e personale, nonché spirituale e psicologica, degli oggetti del bisogno e di consumo, di valori personali, dei beni mobili, che dobbiamo calcolare come oggetti d’impiego e utilizzo del nostro ambiente vitale, che per così dire appartengono al nostro essere personale e che costituiscono il nostro (piccolo) mondo – del tutto personale – insieme al nostro Io spirituale. Poiché li usiamo e sfruttiamo in maniera individuale, essi appartengono alla nostra essenza più personale. In quanto presupposto fondamentale e parte integrante della realizzazione del sé, questo tipo di proprietà individuale necessita della tutela giuridica nell’accezione del diritto romano del dominio sulle cose, che si era sviluppata per l’individuo ed era definita statica. Il diritto di proprietà personale ha il proprio fondamento giuridico naturale nell’utilizzo delle cose; dove è presente un rapporto inequivocabile tra cose e persone.

La proprietà si divide in due tipologie, di cui, come sempre, una è dominante. Esiste una prevalenza di concetti di proprietà materiali e statiche utili al vivere quotidiano, che vengono sfruttate o impiegate a uso personale: la proprietà di consumo. In questo ambito la libertà illimitata di disporre (dominio sulle cose) ha il proprio luogo legittimo. L’espressione “proprietà civile” sarebbe azzeccata. La seconda tipologia è chiamata da Fehr “proprietà organizzata”. “Si tratterebbe di una certa organizzazione, sia essa alle dipendenze di un singolo, — cosa oggi sempre più rara —, un’associazione (perlopiù una società commerciale, un consorzio o una cooperativa), dello Stato o di un comune. Il vecchio concetto statico di proprietà si volatilizza con sempre maggiore velocità e intensità. Qui è la dinamicità del diritto a prevalere. Qui è l’effetto e non la sostanza ad essere rilevante•il modo in cui è raggiunto attraverso la proprietà, il tipo di forze e relazioni, le energie economiche e sociali che si diffondono, sono infinitamente più importanti del a chi appartiene che cosa. Questa proprietà ha un legame di tipo sociale[11]”. Questa definizione di proprietà di tipo dinamico si addice ai mezzi di produzione tecnologici odierni.

Entrambi gli aspetti di staticità e dinamicità richiedono univocità e chiarezza rispetto all’oggetto cui si riferiscono; richiedono una messa in atto diversa a seconda dell’ordinamento sociale. L’individualismo del diritto di proprietà occidentale e il diritto organico sovietico la evitano. Nel diritto organico sovietico anche il proprietario di mezzi di produzione di qualsiasi tipo nella sostanza gode solo di una tutela giuridica, in quanto sfruttatore della proprietà nell’interesse delle forze produttive del popolo. Quest’ultimo è un concetto non concepibile in modo obiettivo e pertanto soggetto all’arbitrio. In una forma così generica il concetto statico di proprietà sfugge a ogni definizione e la persona con esso. Dall’unilateralità dinamica nasce l’ingiustizia nei confronti dell’esistenza personale dell’uomo. Se dall’altro lato nella costituzione della Repubblica federale tedesca (articolo 14) in sostanza si dice: “La proprietà e il diritto successorio sono garantiti”, da questa unilateralità altrettanto generalizzata e statica del diritto di proprietà sorge un’ingiustizia che sfocia nella distruzione della società; perché la norma sulla proprietà si riferisce anche a qualcosa di nuovissimo, ovvero al mezzo di produzione creato dall’uomo in collaborazione con la società, gli strumenti collettivi delle fabbriche. Pertanto è da qui che ha avuto origine la questione sociale.

I più recenti sviluppi del diritto di proprietà

Gli sviluppi del diritto all’Ovest come in Russia dimostrano che le forze sociali reali sorte dallo spirito del tempo e dallo stile di vita contemporaneo stanno a poco a poco smantellando le forme giuridiche estreme descritte. Sarà un processo lento che durerà fino a che non sarà raggiunto un pensiero comune e una consapevolezza di quale direzione prendere relativamente allo sviluppo della società e della concezione del diritto. A partire dalla fondazione delle prime grandi industrie il concetto statico della proprietà in senso romano ha subito alcuni cambiamenti. L’espressione che si trova nel diritto regionale “la proprietà è la facoltà di disporre della sostanza di una cosa o di un diritto in maniera esclusiva e a fronte di un potere personale”, già nel Codice civile (BGB) del 1 gennaio 1900 subisce una limitazione: “Il proprietario di una cosa, senza contravvenire alla legge o ai diritti altrui, può trattarla a piacimento ed escludere altri da qualsiasi effetto” (art. 903). E: “Ai sensi della legge i beni sono solo oggetti materiali” (art. 90). Quando è entrato in vigore il Codice civile il 1 gennaio 1900, la limitazione (“ove non in contrasto con la legge o i diritti di terzi”) fu definita “sociale”. La costituzione di Weimar si spinse ancora più in là: “La proprietà e il diritto successorio sono garantiti. Il suo contenuto ed i suoi limiti sono fissati dalla legge. La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune” (art. 153, comma 3). A questo proposito è da notare l’articolo 151: “L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo”. Una definizione recepita dall’articolo 14 della Legge fondamentale della Repubblica tedesca, ma senza l’articolo 151! Il fatto che questa frase dall’ordinamento della vita economica a favore della dignità umana sia scomparsa di nuovo dalla Legge fondamentale è sintomatico; è evidente che nell’ambito delle idee dell’ordinamento economico dell’Ovest (principio della concorrenza) in questa forma generica non si può iniziare nulla e questo è strettamente connesso alla disciplina del diritto privato della società civile.

Prendiamo in esame invece gli sviluppi del diritto russo-sovietico. Di certo anche qui i concetti di base proprietà statale dei mezzi di produzione e della dinamica del diritto non hanno subito grosse modifiche. Ma è senza dubbio evidente anche in Russia il costituirsi di una proprietà sotto forma di proprietà consumistica, di appartamenti, case, proprietà privata. Allo scopo di accrescere il prodotto sociale (con un surclassamento dell’Ovest) sotto forma di proprietà personale (senza esserne consapevole e senza volerlo), la società comunista si mette al servizio dello sviluppo dell’individuo, affinché nella società comunista possa crearsi il proprio (piccolo) mondo (indipendentemente dalle possibilità di crescita e di istruzione). I fatti che hanno caratterizzato l’Unione sovietica negli anni 1957 e 1958 — dopo la cosiddetta destalinizzazione — e nei tempi più recenti mostrano l’approccio a un nuovo diritto individuale. Anche rispetto al diritto reale, il concetto di proprietà, sia esso statale o della società, appare come un processo in divenire. Se questo sia destinato a portare allo smantellamento del sistema centrale di pianificazione e all‘emancipazione delle singole fabbriche, ipotesi che per decisione del comitato centrale sarà vagliata all’inizio del 1963, il concetto astratto della “proprietà statale” potrebbe tramutarsi in proprietà delle maestranze.

Se il mezzo di produzione ripristina il nesso naturale tra strumento e persona e lo stesso mezzo non è più solo un mero soggetto a sé stante del diritto di proprietà, la componente statica del diritto del proprietario connessa alla persona e quella dinamica vanno a costituire un’unica sostanza di diritto, priva di contrasti. Resterà da chiarire il modo in cui la società potrà rivendicare i propri diritti in quanto terza parte coinvolta. Abbandonando ogni estremismo, il diritto dovrebbe fare ritorno alla totalità (come accadeva nel diritto tedesco antico, senza il dualismo e i contrasti di quello romano), dove tra diritto individuale, quello pubblico e della comunità regna l’armonia.

questa ipotesi è, ancora oggi, il persistere dei contrasti. Nelle fabbriche i capitalisti e le maestranze, ciascuno al proprio posto in trincea gli uni contro gli altri, d potere. Su quei campi dove si combattono guerre sociali in ogni dove, la dinamica che ha scalzato il diritto romano statico dovrebbe acquisire un carattere politico-militante, ovvero diventare un avversario che, come abbiamo visto, non esiste di per sé, poiché né la proprietà privata né quella statale lo sono nel vero senso della parola. L’Occidente, però, si vede costretto a restare ancorato sempre più saldamente al concetto romano di proprietà (anche perché non si conoscono soluzioni migliori). All’Ovest non ci si vuole rendere conto del fatto che questa ostinazione, che non ammette discussioni e che senza dubbio affonda le proprie radici anche negli interessi legati alla proprietà, è di ostacolo a quelli politici. Ma esiste un modo diverso per rimuovere questo ostacolo, invece di disgregare concetti e cercare di inquadrare il problema della classificazione delle persone e degli strumenti, senza per forza usare la violenza? L’Europa avrebbe il compito di riformulare il concetto di proprietà. Anche Fehr, l’esperto di diritto qui più volte citato, nel 1928 si era già espresso in questo modo: “Bisogna arrivare a un nuovo concetto di proprietà. Ma il cambiamento sarà lento. La maggior parte delle persone ha più vincoli di quanto non creda. E pensa ancora secondo gli schemi della romanità. Non osiamo intaccarli, sebbene la vita abbia preso da tempo altre direzioni”.

Nel frattempo qualcosa è accaduto. Il contrasto tra Est e Ovest esige un nuovo concetto di proprietà come soluzione. Forme di proprietà alternativa non serviranno a nulla. Bisognerà cercare la soluzione ad altri livelli, dove i diritti della persona e quelli della società saranno in armonia. In materia di mezzi di produzione, suoi tratti distintivi non saranno la proprietà o il diritto successorio, ma la garanzia dei diritti a favore dell’evoluzione della persona e di quelli della società.

Proprietà dei mezzi di produzione come diritto naturale

Torniamo a riflettere sui mezzi di produzione quali strumenti di lavoro. Se a questa caratteristica degli strumenti del collettivo applichiamo il concetto di proprietà come un potere di disporre (e quindi come un potere illimitato sulla cosa secondo l‘articolo 903 del Codice civile tedesco), il proprietario naturale è a sua volta il collettivo dei lavoratori che lavora con i mezzi di produzione. In questo modo si parla di “proprietà” come elemento di “diritto naturale”.

Sulla questione del diritto naturale c’è un dibattito in corso; risolverla significa avere in pugno la questione sociale dove risiede il problema di fondo. Classificare la proprietà di disporre secondo gruppi di persone de facto, ma non de jure (perché usano il mezzo come strumento di lavoro), si esclude la possibilità del diritto di disporre per terzi, ovvero il diritto alla proprietà privata di vecchio stampo (ad esempio attraverso l’acquisto o l’eredità) e allo stesso tempo i diritti alla proprietà pubblica o statale di nuovo tipo (attraverso l’espropriazione o le rivoluzioni).

Il capitale privato che si sta facendo spazio (di capitale pubblico non dovrebbe esserci neanche l’ombra: da dove dovrebbe venire se non dall’espropriazione?) si limiterà ai prestiti di denaro, che rendono possibili gli investimenti nell’industria, cosa ragionevole anche dal punto di vista sociale poiché, in armonia con gli interessi generali, andrebbe incontro ai bisogni del singolo. Solo individui capaci in quanto detentori di competenze e in collaborazione tra loro avranno la facoltà di produrre e non il “capitale”, che sotto forma di titolo di diritto alla proprietà dei mezzi di produzione non è altro che un fattore di disturbo sociale.

La concezione secondo cui la proprietà del collettivo degli strumenti sia da classificare in base al collettivo di lavoro è soprattutto in contrasto con l’idea della “sacralità” della proprietà. Nella dottrina sociale cattolica questa concezione trova ancora oggi molti consensi. Alla possibilità di fare un cattivo uso del diritto alla proprietà dei mezzi di produzione la Chiesa contrappone l’appello a che “il proprietario faccia uso della proprietà in modo etico”. Ovvero “con tutte le forze procurare che in avvenire i capitali guadagnati non si accumulino se non con equa proporzione presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa ampiezza fra i prestatori di opera”. La questione della proprietà si manifesta ancora nella sua forma primitiva, ovvero come mera necessità di pane; alla questione giuridica si risponde secondo la concezione storica romana. Per tutto ciò che riguarda la legittimità materiale e sociale, si pone l’attenzione sul comportamento etico del proprietario. Non ci si accorge — anche ora che l’azione delle organizzazioni di operai non è più finalizzata in primo luogo a combattere la miseria — che subito dopo la necessità di pane viene la questione del riconoscimento dei diritti della persona. Anche se la questione materiale resta (all’apparenza) in primo piano, fondamentale è individuare i principi validi, ovvero conformi alla legge secondo cui i singoli individui possono rivendicare il proprio pezzetto di prodotto sociale, ossia di “pane”. Oggi non è più possibile accettare una concezione primitiva che prevede una legittimità sociale solo attraverso il conferimento di un’equa parte del frutto del lavoro comune (come si credeva durante il primo Socialismo). Questo pensiero ha avuto un ruolo significativo per il movimento socialista, come dimostra la grande diffusione di scritti che partono dal presupposto dell’uguaglianza.

Il Socialismo si prefigge di mettere in atto la legittimità sociale in ambito economico. Ma in cosa consiste la parte legittima del singolo prodotto comune lavorato? è possibile distribuire — dall’esterno — in maniera equa il prodotto sociale oppure ci si deve rassegnare alla rinuncia, poiché di fronte alle pretese soggettive del singolo non può esistere una misura “legittima”? Considerato che senza una visione personale e il buonsenso, l’eccesso di desideri materiali dovrà sempre fare i conti con i limiti della produzione, si preferisce aumentare la produttività del lavoro attraverso le tecniche odierne. Se non si cerca di dare una risposta immediata alla domanda di parti di beni sul piano economico, dove risposta non esiste, la si potrà trovare in modo indiretto riformando i rapporti giuridici.

Si è abituati a dare per scontata la necessità di cercare massime etiche, morali, sociali che fungano da leggi e che servano da legittimatori sociali per la comunità. Con l’aiuto del buonsenso, dal punto di vista della natura umana — come credevano alcuni giusnaturalisti — si dovrebbe cercare un sistema di diritto naturale che, in virtù della propria esattezza, possa mettere in atto i valori innati della legittimità sociale. La scuola storica del diritto e la dottrina del XIX e XX secolo a questi primi tentativi di dottrina giusnaturalista non hanno concesso molto altro se non una vaga speranza. A dettare legge non è l’uomo, ma lo Stato. Non Dio, non la ragione — solo lo Stato, ad oggi, appare come detentore del diritto positivo; fa le leggi e la legge è di fatto anche il diritto, ove essa viene validata formalmente (ad esempio per decisione del Parlamento). Tuttavia dopo tutti i fatti illegali verificatisi nel XX secolo, nessuno crede più che il diritto naturale vero e proprio possa nascere da leggi formali. L’esigenza di un diritto reale in questo senso viene sempre più seppellita sotto cumuli di norme statali.

Finché si cercano norme etiche, morali di un diritto naturale, non sarà possibile porre basi solide per l’ordinamento sociale. Si gioca su un campo in cui il grado di sviluppo morale dell’individuo e quello del costituirsi dell’uomo come individuo portano a formulare norme etiche soggettive di valore. In che modo l’ordinamento sociale dovrebbe tenerne conto? L’unica entità comprensibile e ancora determinante, anche ai fini dell’organizzazione sociale, è l’individuo uomo quale soggetto di diritto. Sarà quindi importante porre basi giuridiche grazie alle quali chi partecipa alla produzione possa vivere una condizione libera e concordata, in quanto soggetto giuridico che gode di pari diritti.

Il diritto naturale ha diversi livelli. Quando si tratta di porre le basi giuridiche per una collaborazione tra i detentori di facoltà materiali e spirituali, l’incertezza derivante da una condizione mentale etica o tipica del tale proprietario (o erede) all’interno di un’economia antisociale votata alla concorrenza non deve essere presa in considerazione. La forza etica del singolo proprietario è limitata e troppo gravosa. Altrettanto incoerente è coinvolgere lo Stato ed escludere l’indipendenza giuridica del singolo individuo all’interno dell’industria. Tuttavia le basi giuridiche possono essere insite nella “natura delle cose” e fondarsi su essa.

Diritto naturale è anche sinonimo di “adeguatezza” come esperienza di legittimità dell’esistere sociale. La natura rerum “può essere scovata in modo corretto indipendentemente da formulazioni teologiche o filosofiche, attraverso il giudizio della ragione pratica...e mira a una topica dei principi “adeguati” o anche “vivibili” costitutivi dell’ordinamento sociale.

La natura rei è una cosa quando si tratta di beni di consumo e un’altra quando si parla di mezzi di produzione. In entrambi i casi si deve rendere manifesto il tipo di struttura sociale, in modo da trovare la “ragione leggittimatrice” (causa di giustificazione) di tutti i diritti “positivi”. Questa divagazione sul diritto naturale ha senso perché è un argomento importante su cui ritorneremo alla fine.

Anche dal punto di vista del diritto naturale, oltre alla questione su a chi debba essere attribuita la proprietà dei mezzi di produzione per assumere una funzione individuale e sociale accanto al mezzo di produzione, resta la somma delle individualità produttive che ne fanno uso. Privandole del diritto di proprietà sul collettivo dei mezzi di produzione, dal punto di vista giuridico l’individuo uomo si perde in questo piano di riferimento naturale. Separare l’uomo dallo strumento significa separare dall’uomo anche il lavoro; si trasforma — come compreso dal movimento socialista ed elaborato da Marx nella lotta contro la classe borghese dei possidenti — il lavoro in merce. Con la proprietà anonima dei mezzi di produzione (dello strumento) l’individuo uomo ovviamente non dispone più del proprio lavoro; e da qui il lavoro diventa merce di scambio. Solo per questo nasce il “datore di lavoro”. Se attraverso un processo giuridico e per effetto di un diritto di disporre della proprietà sui mezzi di produzione la forza lavoro diventa un bene tipico e inseparabile dall’individualità umana “espropriato” e trasformato in merce, l’uomo viene negato come individualità e relegato alla mera natura di persona giuridica. La fabbrica, anche nelle migliori condizioni, rimane uno stato di cose incancellabile e anche a livello profondo comprensibile come quella che Marx definiva “schiavitù del lavoro”. Se il lavoro viene privato del suo diritto naturale a un rapporto di proprietà con lo strumento affinché questo diritto passi a terzi, l’individuo rischia di perdere di nuovo una parte del diritto individuale che rappresentò un contributo storico importante per lo sviluppo del diritto grazie al diritto romano (come riporta Gierke). Questo ha rappresentato un impeto rivoluzionario conseguente alla questione sociale, da quando questa è diventata la priorità nell’ambito delle problematiche sociali della modernità: è giusto che l’individuo, l’uomo come personalità, venga privato del diritto acquisito grazie alla concezione romana (comunque parlando sempre di lavoro organizzato e collettivo e di tempo lavorato), al punto che in materia di diritto di proprietà sui mezzi di produzione l’individuo (come ai tempi della schiavitù) sia relegato a diventare un mero strumento da lavoro e il mezzo di produzione sia elevato al rango del signore? Il fatto che questo accada a causa della separazione tra proprietà e mezzi di produzione tutt’oggi appare quale vera ragione ancora più profonda delle tensioni sociali nelle aziende di stampo industriale.

Non è forse vero che per trovare una soluzione si dovrebbe partire dal presupposto che il rapporto di proprietà tra maestranze e mezzi di produzione è un diritto naturale? L’attuale dualismo giuridico di proprietari e detentori di funzioni non consente di superare la contrapposizione sociale tra datore di lavoro e lavoratore?

Va da sé che la proprietà “naturale” non è che una parte della globalità di rapporti giuridici (naturali) esistente tra mezzi di produzione e maestranze; a questa si aggiungono altri rapporti giuridici, come vedremo più avanti. In questo senso essa rimane comunque parte essenziale di questo diritto organico, poiché la mancata risoluzione della “storica” questione della proprietà non consente di riconoscere altri aspetti fondamentali di questa struttura giuridica globale né di metterli in pratica nella struttura sociale, soprattutto per la presenza da un lato di rapporti giuridici tra mezzi di produzione e società e dall’altro di quelli tra maestranze e società. La soluzione della questione della proprietà al momento non corrisponde a quella della questione sociale, ma è la chiave per comprendere i problemi la cosiddetta associazione dei lavoratori.


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Note:

[1] La proprietà è un diritto sacro e inviolabile.

[2] Otto Gierke, Die soziale Aufgabe des Privatsrechts [la funzione sociale del diritto privato], Berlino 1889, pag. 6.

[3] Hans Fehr, Recht und Wirklichkeit [diritto e realtà], Zurigo 1928, pag. 92 e sgg.

[4] Fehr, Ibidem.

[5] Fehr, Ibidem, pagg. 90, 94.

[6] Untergang des Abendlandes [il tramonto dell'Occidente], Monaco 1922, pag. 97.

[7] Fehr, Ibidem, pagg. 109, 101.

[8] Fehr, Ibidem, pagg. 109, 101.

[9] “La proprietà è il diritto di possedere una cosa nel modo più assoluto”.

[10] Fehr, Ibidem, pagg. 131.

[11] Fehr, Ibidem, pagg. 117 e sgg.

[12] “Resti fermo adunque, che nell'opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata” (Rerum novarum 1891); “Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente”. (Mater et magistra 1961).

[13] Ad esempio Bellamy, Uno sguardo dal 2000. Uscito nel 1888. Fino al 1895 ha avuto un milione di riedizioni; tradotto in molte lingue e in continua ristampa. In questo romanzo il denaro non esiste, ognuno gode del diritto di disporre delle cose in pari misura. È scritto sottoforma di dialogo ed è un'esaltazione degli ideali comunisti.

[14] Erik Wolf, Das Problem der Naturrechtslehre [il problema della dottrina del diritto naturale], Karlsruhe 1959, pag. 79.