Il rapporto “naturale” tra artigiano e strumenti da lavoro
Per vivere sulla terra l’uomo ha bisogno di mezzi di sussistenza. In epoche primitive la natura glieli forniva per nutrirsi, vestirsi, costruirsi una casa, ecc. Per sopravvivere gli animali risultano meglio equipaggiati dell’uomo; i loro organi si sono specializzati nell’ambiente. In sé hanno gli strumenti che servono per procacciarsi istintivamente i mezzi di sussistenza all’interno del proprio habitat naturale. L’uomo non si adatta allo stesso modo all’ambiente. Deve sopperire alle proprie mancanze in termini di istinto e di adattamento fisico servendosi delle proprie abilità intellettuali. Già a un livello di sviluppo primitivo si trovavano strumenti e mezzi semplici, frutto dell’intelligenza umana, utili per fabbricare beni di prima necessità.
Ma l’intelligenza umana è andata oltre e in questo processo sono cambiati e si sono evoluti anche gli strumenti, sempre più lontani dalla semplicità iniziale che rendeva facile e immediato comprendere a cosa servissero. Si sono moltiplicati, sono divenuti più complicati e si sono progressivamente allontanati dalla forma originaria. Se si guardano gli odierni complessi industriali, a stento si pensa alle fabbriche moderne quali “semplici” mezzi di produzione e nient’altro, ovvero solo strumenti utili a produrre gli innumerevoli mezzi di sussistenza di cui abbiamo bisogno. Grazie alle abilità tecniche in ambito intellettuale e scientifico sviluppate nella nostra era, si sono evoluti in collettivi di strumenti, mezzi e arnesi.
L’artigiano è dotato di strumenti – suoi se lavora in proprio – con i quali instaura un rapporto vitale personale e diretto, fondamentale per la sua relazione “sociale” con essi; tutt’ora, esattamente come agli albori della civiltà, i mezzi di produzione personali sono alla base della sopravvivenza e del sostentamento. Può essere che il singolo artigiano all’interno del moderno collettivo di un’industria sia ancora dotato di strumenti, i quali però non sono più suoi, ma “della fabbrica”. Chi lavora in fabbrica può ancora avere strumenti come quelli delle origini (martello, scalpello, ecc.), ma anche torni a revolver molto complessi e costosi. La sostanza è la stessa, ovvero si tratta sempre di mezzi di produzione personali di chi ci lavora. E infatti si parla dei “miei” strumenti, del “mio” tornio, nonostante questi oggetti appartengano ad altri, esattamente come la fabbrica che li contiene. Cosa è cambiato rispetto alle prime forme di strumenti? Nei collettivi di oggi, impianti industriali complessi, singoli strumenti di vario genere interagiscono tra loro di modo che persone con diverse abilità possano collaborare con criterio. Pertanto il collettivo di strumenti di uno stabilimento privato è un mezzo di produzione associativo non più del singolo, ma di un gruppo di persone. Dalla matita del libraio alle macchine automatizzate più complesse: fanno tutti parte del termine “mezzi di produzione” o “strumenti da lavoro” di tutti i singoli “artigiani” nel senso ampio del termine coinvolti nel processo produttivo. Quindi, se il singolo artigiano è legittimato all’uso di uno strumento in virtù delle proprie capacità, lo stesso avviene per l’insieme delle maestranze di una fabbrica rispetto ai mezzi di produzione comuni, ovvero per l’uso della “loro” fabbrica. Tra maestranze e fabbrica — come accadeva in origine ai singoli artigiani —, esiste quindi un “rapporto di proprietà” che sfugge a una visione diretta delle cose e del processo; la fabbrica quale mezzo di produzione adesso non è altro che una combinazione di strumenti e allo stesso tempo uno strumento collettivo, poiché destinato a un uso comune.
In modo diverso rispetto al rapporto di proprietà originario dell’uomo con i propri strumenti, le persone impiegate oggi nei collettivi di fabbrica hanno una consapevolezza scarsa se non nulla del rapporto naturale e personale tra loro e gli strumenti di lavoro collettivi. Perché — per ragioni ancora da scoprire — il nostro concetto di proprietà dei mezzi di produzione del collettivo è del tutto diverso da quello degli strumenti da lavoro originari. Gli “artigiani” dell’industria in senso ampio — le maestranze nella loro totalità — dovevano disporre degli strumenti e dei mezzi di produzione liberamente e di propria iniziativa, affinché in virtù delle proprie capacità producessero per il prossimo esattamente come facevano gli artigiani con i propri strumenti. Inoltre, esattamente come accadeva per i singoli strumenti da lavoro, la fabbrica poteva essere di proprietà di una terza persona che intendesse disporre degli strumenti del collettivo indipendentemente dagli “artigiani”. Osservando la cosa senza preconcetti si può dire che gli strumenti del collettivo, ovvero la fabbrica, e le maestranze, ovvero gli artigiani del collettivo, si appartengono. O, per meglio dire, la fabbrica è delle maestranze.
Mestiere[1] “autonomo” e mestiere ”dipendente“
Questa considerazione è in netto contrasto con i concetti abituali degli ordinamenti sociali propri dell’economia privata e statale. Oggi alla domanda se sia giusto che non gli “artigiani” del collettivo ma qualcun altro ne abbia proprietà e sia libero di impiegarli, disfarsene, venderli o sostituire il singolo “artigiano” a piacimento, la risposta sarebbe questa: una cosa è la fabbrica e un’altra è il singolo strumento di lavoro; gli strumenti di fabbrica oggi significano capitale esterno, e gli “artigiani” sono lavoratori “dipendenti” che li impiegano (contrariamente ai maestri artigiani “autonomi”).
Reddito “dipendente” e reddito “autonomo” sono concetti del diritto moderno. Questa differenza è la conseguenza di forme e criteri di tassazione, diversi a seconda del tipo di attività (si potrebbe anche dire che è conseguenza dei diritti di proprietà di cui ci si vuole arrogare). A prescindere dall’argomento, questa differenza non ha ragione di esistere se si osserva l’attività in senso stretto. Solo distinguendo tra l’artigiano indipendente che lavora con strumenti propri e la situazione dell’industria moderna in cui il proprietario gode di potere decisionale relativamente agli strumenti del collettivo, chi lavora con i mezzi di produzione (contrariamente all’artigiano) diventa lavoratore “dipendente”.
Entrambe le categorie non sono il risultato di attività diverse nella sostanza, ma della moderna forma di esistenza dei mezzi di produzione basata sul diritto di proprietà. Forma assolutamente legale, ma non per questo giusta e legittima. Nelle differenze tra gli “strumenti” non vi è alcun fondamento. Non sorprende che tanto nella società dell’Ovest quanto in quella dell’Est — sempre secondo questo principio — chi usa i mezzi di produzione sia considerato un lavoratore “dipendente”. Per entrambe gli strumenti collettivi, in contraddizione con la natura dello strumento stesso, non sono oggetto del potere decisionale di chi li usa, ma di qualcun altro.
Il proprietario “subentrato”, causa di problemi sociali
L’uomo impiega gli strumenti come “mezzi” di sussistenza. Quando se ne serve, costituisce con esso una sorta di unità (simile all’animale con i propri organi esterni); infatti lo strumento da solo senza il “padrone” non è altro che una sostanza senza valore, e il “padrone” senza il suo “strumento” è indifeso e senza quest’ultimo doveva sentirsi tale rispetto all’ambiente esterno. Mentre l’uomo può separarsi o essere separato dai suoi strumenti, l’animale no; e in un certo senso è proprio in questo che consiste la forma specificamente umana dell’esistenza terrena, che in tal modo diventa un problema sociale e di diritto.
Nella moderna società industriale l’unione originaria e naturale tra uomo e strumento non esiste più. Al suo posto è subentrato “il proprietario”, una categoria a sé che affianca gli strumenti del collettivo e le persone che li usano. Ne consegue “l’ingressione[2] giuridica” di un proprietario, ovvero una condizione di degenerazione: un’appartenenza, che stando alla base di un rapporto di diritto tra uomo e strumento, scompare a fronte del costituirsi di una struttura giuridica. Allo strumento (i mezzi di produzione) si attribuisce una natura giuridica. Attraverso questa essenza giuridica sviluppa una propria ostinazione; pertanto non c’è da meravigliarsi se l’essenza “ostinata” dei moderni strumenti del collettivo, mastodontici rispetto a quelli delle origini, ha portato alla luce le violente problematiche sociali di oggi. Rispetto alla persona cui viene assegnato, esso percorre una strada propria e può perseguire scopi egoistici. Ne deriva un enigma: la “questione sociale” nella sua specifica forma moderna, presente da quando esistono questi strumenti del collettivo, ovvero le “industrie”.
Nessuna differenza giuridica tra proprietario privato e proprietario statale
La separazione tra privati con proprietà e maestranze senza proprietà durante lo sviluppo del capitalismo, come è noto, ha generato le disuguaglianze sociali e da ultimo una rivalità acerrima tra i due gruppi. La concezione socialista, per contro, vedeva nella proprietà collettiva la soluzione. La teoria sociale marxista nasceva come antitesi dialettica tra la proprietà privata, anti-sociale e la proprietà collettiva, sociale. Ma le riflessioni scientifiche a partire dalle teoria sociale sembrano ritornare al concetto di proprietà semplificato ed estraniato dall’essenza della questione. Alla proprietà dello Stato o del popolo sono conferite le medesime caratteristiche di possesso dei mezzi di produzione proprie del capitale privato, con la differenza che i proprietari sono lo Stato o il popolo. Il naturale rapporto di appartenenza tra uomo e strumenti manca da entrambe le parti: né il privato né la società producono da soli con i mezzi di produzione industriali. Loro è solo il diritto di disporne, in particolare per opera di un modello giuridico.
Nell’economia privata e capitalistica è all’ordine del giorno che i proprietari cambino, senza che nulla muti dal punto di vista sociale all’interno di una fabbrica. Il fatto che per la teoria comunista i mezzi di produzione passino allo “Stato” non è quindi un fattore decisivo per il recupero del rapporto naturale tra mezzi di produzione e maestranze dell’azienda. Come l‘esperienza ci insegna, dal punto di vista sociale non c’è alcuna differenza sostanziale se sia un privato o lo Stato a possedere i mezzi di produzione. Perché con i mezzi di produzione collettivi “il lavoro dipendente” non solo esiste ancora, ma è diventato assoluto, ovvero esteso a tutti; ancora peggio: nella contrapposizione originaria tra capitale e lavoro, solo interna alle imprese, risiede la causa di una insuperabile contrapposizione mondiale. Adesso, ad opera di queste due tipologie di proprietari di mezzi di produzione, si tratta di superare il conflitto tra Est e Ovest, un contrasto che — come si afferma da entrambi le parti — riguarda due categorie di proprietà, quella “privata” e quella “collettiva”, anche se in realtà – come si è visto – a essere contrapposti non sono due categorie di proprietà, ma due proprietari.
Il contrasto tra proprietari è ben conosciuto nel sistema capitalistico occidentale, anche se per definirla si usa l’eufemismo “concorrenza”. Nella lotta concorrenziale la questione ruota spesso intorno all’esserci e al non esserci; è una lotta economica tra la vita e la morte, sempre che il potenziale dei concorrenti sia in qualche misura lo stesso; allora si tende ad arrangiarsi e a segnare il proprio territorio. Niente di diverso da quello che accadrebbe se nel conflitto tra Est e Ovest i due proprietari si fronteggiassero mettendo in campo i propri potenziali militari. La proprietà autonoma e vendibile del sistema occidentale è la causa della “lotta tra proprietari”. Se oggi nel mondo esistesse solo la proprietà statale o collettiva (se quindi tutto il mondo fosse comunista, e non si avesse neanche idea della proprietà privata dei mezzi di produzione), anche la proprietà statale — suddivisa nei modi e nei termini di legge — per le stesse ragioni porterebbe alla lotta tra proprietari (a livello nazionale o in base a differenze ideologiche), conseguenza delle dimensioni ancora pericolose del potere del proprietario statale. Questo dato di fatto reale è già visibile nei lager comunisti. Cambiare il proprietario non risolve il problema. Per di più i dogmi politici non servono ad altro che a stendere una cortina. Un collettivo di strumenti (mezzi di produzione) posseduto da qualcuno e separato dai funzionari (gli “operai” del mondo occidentale) porta a una complessità di poteri, alla lotta e alla guerra. Crea una contrasto artificiale (affatto tipico dei mezzi di produzione delle origini), perché genera uno straniamento del potere discrezionale, concentrazioni di potere e scopi estranei alla causa.
Una prima idea sull’essenza dei mezzi di produzione trova conferma negli effetti riconoscibili di questo contrasto illecito e nelle esperienze sociali, sia a livello di singola azienda, sia nei contrasti politici tra ideologie. Qui di seguito si analizzerà la struttura della proprietà dei mezzi di produzione in base all’influenza sociale poiché - a fronte dell’idea del recupero del rapporto di appartenenza tra uomo e strumenti in base anche il nostro livello di sviluppo, in cui gruppi di persone lavorano con i propri strumenti-macchinari del collettivo -, essa si rivela causa di un contrasto che alle origini, quando l’uomo possedeva solo il proprio strumento, non era affatto presente. La lotta tra proprietari non si risolve con l’espropriazione, ma con il trasferimento della proprietà all’insieme delle persone aventi competenza.
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