Considerazioni sulle dichiarazioni fatte dagli esponenti politici prima dello scoppio della prima guerra mondiale e sui rapporti sociali di allora fra i popoli. L'idea di Società delle Nazioni nel discorso in Senato di Wilson del 22 gennaio 1917. Volendo istituire una Società delle Nazioni, è necessario tener conto della questione del capitale e del lavoro. Due aspetti della questione del capitale: il rapporto fra l'impiego delle facoltà umane e il capitale e la distinzione fra proprietà e gestione del capitale. Il lavoro come merce nella concezione marxista. Necessità di una triarticolazione dell'organismo sociale. Caratterizzazione dei singoli ambiti sociali e in particolare della vita economica, ponendo al centro la questione della proprietà. Critiche di Herman Grimm al militarismo.
Dibattito
Critica delle idee fondamentali del socialismo: la dittatura del proletariato; il problema di 'Ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni'; critica dei programmi (di partito). Aspetto presente e futuro della 'triarticolazione'. La questione del militarismo nella formula di Clausewitz. Il 'bolscevismo' di J. G. Fichte.
Negli ultimi quattro anni, si è spesso sentito dire che cose come quelle che sono appena successe, tanto terribili per l’umanità, non si erano mai viste in tutta la storia a noi nota. Meno spesso, invece, si sente dire che adesso, con questo sentimento, all’orrore che ha colpito l’umanità bisognerebbe anche rispondere almeno tentando di dare alla convivenza sociale una forma nuova, cambiando i pensieri fin dalle fondamenta, cambiandoli in modo sostanziale, in modo che fra il nuovo modo di pensare e quello vecchio cui siamo abituati ci sia la stessa differenza che c’è fra i terribili eventi degli ultimi anni e tutto quello che l’umanità aveva vissuto precedentemente in tutto il corso dell’evoluzione umana. È vero che al giorno d’oggi, quando affiora un simile tentativo di sviluppare pensieri che cozzano contro le abitudini di pensiero ormai ben radicate, per lo più, quando si fa un tentativo del genere, ci si sente rinfacciare: “Ecco, un’altra utopia!” Però, proprio in quest’ultimo periodo, abbiamo già visto qualcosa riguardo allo stato d’animo su cui ancora oggi si basa questa accusa. Le persone che la pensano come quelle che appunto nel caso accennato parlano di ‘utopia’, sono proprio le stesse che, ancora nella primavera del 1914, se qualcuno fosse stato capace di descrivere gli eventi catastrofici che stavano per colpirci, avrebbero pensato che stesse sproloquiando, che stesse dando sfogo alla sua fantasia. Si definiscono ‘pratiche’, queste persone. Allora, prima che la catastrofe si abbattesse su tutto il mondo, che cosa dicevano queste persone? Osserviamo alcune cose. Basti solo pensare ad alcuni degli uomini di Stato che allora, nella primavera del 1914, erano alla guida del Paese. Lo dico quasi alla lettera: in quel periodo queste persone pratiche che tanto disprezzano quelle che secondo loro sono ‘utopie’, dicevano pressapoco così: “Grazie agli sforzi dei gabinetti, i rapporti reciproci fra le grandi potenze europee offrono una certa garanzia che nel prossimo futuro la pace mondiale non potrà essere minata.” Non sono parole inventate, si possono leggere nei rapporti parlamentari; vi sono contenute nelle più diverse varianti.
Invece chi a quei tempi, per interiore disposizione d’animo, non poteva orientarsi secondo il modo di pensare di quelle persone, ma cercava di continuare ad osservare gli eventi in modo imparziale, parlava più o meno come dovette parlare, nell’aprile del 1914, davanti ad un’assemblea a Vienna, e come oggi sta parlando anche a Voi. A quei tempi, la mia coscienza intellettuale e il mio spirito di osservazione mi costrinsero a dire: “Riguardo all’evolversi delle condizioni sociali e dei rapporti fra i popoli ci troviamo inseriti in qualcosa che si può caratterizzare solo come un cancro, come un tumore nella vita dei popoli, e che in brevissimo tempo non potrà che erompere in maniera spaventosa.” Tuttavia, forse, la violenza degli eventi costringerà gli uomini a considerare coloro che parlano con questa disposizione d’animo meno utopistici degli altri, i cui discorsi combaciano con la realtà tanto bene quanto appunto vi ho accennato. Anche oggi i pragmatici tornano a farsi sentire, scagliandosi contro quelle che definiscono ‘utopie’, dicendo: “Al momento non possiamo raggiungere subito le più alte vette di un nuovo ordinamento sociale umano, dobbiamo procedere passo passo. Certamente alcuni pensieri – dicono queste persone – sarebbero belli, e forse un giorno, nei secoli, si arriverà anche a queste cose; però oggi il nostro dovere sarebbe appunto quello di fare i primi passi.”
Ora, sicurissimamente è del tutto ovvio che prima sia necessario fare i primissimi passi, ma senza avere alba, già muovendo il primo passo, di quale debba esserne la direzione, senza avere idea di dove in realtà si trovi la cima, sarà difficile scalare una montagna. E forse chi non la pensa come questi signori che disprezzano le utopie, e invece magari pensa proprio in modo realistico, oggi dovrebbe usare una metafora diversa, riguardo a ciò che è celato in germe e che potrebbe di nuovo erompere in un modo spaventoso. Forse non dovrà usare la metafora di quel cancro che è esploso nella catastrofe mondiale in questi ultimi anni. Dovrebbe piuttosto dire che adesso molti ragionano come delle persone che, abitando in una casa piena di crepe e di fenditure che minacciano di farla crollare, non riuscissero a decidersi a fare qualcosa per restaurarla, e che invece si consultassero ripetutamente su come collegare con delle porte le singole stanze in cui abitano, perché grazie a queste porte potrebbe essere più facile riuscire ad aiutarsi a vicenda. - Ci si potrà aiutare ben poco, con queste porte, se le crepe si allargheranno oltre un certo limite!
Certamente, a quanto pare, pensare queste cose è consono all’evolversi dei fatti, che oggi parlano più forte e più chiaro di quanto normalmente al giorno d’oggi la gente abbia voglia di ascoltare.
Ora da questa catastrofe mondiale, con tutti gli orrori che si sono dovuti attraversare, è nato un sentimento che a poco a poco si è cristallizzato in modi di vedere come quelli che adesso si ritrovano anche alla base dell’importante assemblea che ha avuto luogo qui a Berna come Conferenza della Società delle Nazioni. La chiamata ad una Società delle Nazioni è nata dai tragici eventi degli ultimi anni. Però bisogna dire che forse, in realtà, potrebbe sembrare giustificato accostarsi a quel che c’è in questa chiamata alla Società delle Nazioni anche con sentimenti diversi da quelli che oggi alcuni hanno. Infatti forse è più importante non solo chiedersi: “Che cosa si potrebbe fare per questa Società delle Nazioni? Che misure si potrebbero prendere, per realizzarla (come ce la si immagina) nel modo migliore?” Forse piuttosto ci si potrebbe chiedere: “Che basi ci sono, nella vita dei popoli, per fondare una simile Società delle Nazioni?” Infatti solo tenendo conto delle forze presenti nella vita dei popoli, solo conoscendo queste forze, si riuscirà a capire in che misura si sia in condizione, con una simile Società delle Nazioni, di fare qualcosa di utile. E non sembra necessario, diciamo, spingere un po’ la domanda in questa direzione, dato che l’importante concezione di questa Società delle Nazioni, particolarmente illuminante per il mondo, è nata insieme ad un pensiero la cui realizzazione oggi deve essere assolutamente fuori questione? Nel 1917, in un discorso di Wilson al senato americano, emerse un pensiero che, collegato ad un altro pensiero, suonava pressapoco così: “Ciò cui si può mirare con questa Società delle Nazioni ha un certo presupposto, ovvero il presupposto che le guerre non debbano sfociare, né da una parte né dall’altra, in quelle che in senso stretto si dovrebbero chiamare ‘vittoria’ o ‘sconfitta’.” Wilson puntava ad un esito che non fosse la vittoria o la sconfitta di una parte. E i sentimenti che lo spingevano verso questa Società delle Nazioni dipendevano da ciò che pensava in questo senso.
Certamente il pensiero aveva in sé una realtà; ma quella realtà, cui si pensava a quei tempi, quella realtà oggi è ormai fuori discussione; perché oggi la vittoria netta di una parte è la sconfitta netta dell’altra. Ecco forse, per esempio, la questione della Società delle Nazioni dev’essere posta in modo completamente diverso proprio per questo motivo.
Ponendo io stesso la questione della Società delle Nazioni e avendo il coraggio di discuterla oggi pubblicamente, è proprio del tutto ovvio, che io ponga questa domanda in un modo del tutto particolare. Oggi, se si fa parte del popolo che è stato nettamente sconfitto, non è possibile fare quella domanda come se la risposta potesse arrivare solo da un libero accordo fra quei popoli che magari volevano entrare a far parte di una simile Società delle Nazioni e dei quali, per i sentimenti più profondi, con ogni certezza fanno parte anche i popoli dell’Europa centrale. Gli eventi di Parigi sostanzialmente escludono i Tedeschi da una simile questione, e a questo riguardo non dovremmo farci alcuna illusione. Ma non voglio nemmeno porre la questione così. Quel che mi interessa è di trovare un modo di formulare la domanda e una relativa risposta in modo tale che possa aver voce in capitolo anche chi forse nell’immediato futuro è escluso dalla partecipazione a questa Società delle Nazioni. Cioè, la domanda dovrà essere posta così: “A prescindere da quali associazioni momentanee vengano realizzate, che contributo può dare ogni singolo popolo con le sue proprie forze, al di là che abbia vinto o perso la guerra, per una reale Società delle Nazioni che possa dare all’umanità ciò cui essa ardentemente aspira?”
Ma allora, dato che una Società delle Nazioni deve indubbiamente occuparsi di questioni internazionali, bisognerà prima di tutto occuparsi delle questioni internazionali più importanti che, nella situazione che si verrà a creare nel prossimo futuro, riguarderanno tutti i popoli.
Se oggi ci si occupa di tale situazione, allora, come si è abituati a fare, si comincia guardando in due direzioni. Si guarda da una parte allo Stato, e dall’altra alla vita economica. Le persone che al giorno d’oggi vogliono qualcosa riguardo alla convivenza umana guardano, puntando appunto a ciò che vogliono, prima allo Stato, e chiedono: “Che cosa dovrebbe fare lo Stato per questa o quella faccenda, ormai matura per un cambiamento?” O altrimenti, per avere chiarezza, oggi le persone guardano, diciamo con occhi ipnotizzati, alla vita economica; infatti la situazione economica pare essere l’unica responsabile dei conflitti attuali, almeno dei conflitti attuali più gravi.
Di solito, in queste considerazioni che si fanno guardando in queste due direzioni, inizialmente si trascura una cosa. Pur assicurando di voler tener conto delle circostanze attuali e di voler prestare attenzione all’essere umano, in realtà lo si fa di rado. A questo proposito vorrei proprio cercare di non avere paura di approfondire che cosa si trova guardando da un lato allo Stato e dall’altro alla vita economica. Ma soprattutto non vorrei trascurare di porre una domanda in modo molto energico, partendo dal punto di vista dell’essere umano in quanto tale: “Che cosa devono fare gli Stati, per unirsi in una Società delle Nazioni?” Questa è proprio la prima domanda iniziale. E per il prossimo futuro si realizzerà parecchio (non crediate che io voglia criticare o condannare), parecchio di realmente buono, ponendo questa domanda in questo modo, cercando di trovare, in base alla composizioni degli Stati, ai costumi dei singoli Stati, anche in un certo senso qualcosa che vada oltre gli Stati, come una lega mondiale o un parlamento mondiale. Solo che oggi alla domanda: “Che cosa dovrebbero fare gli Stati?” vorrei contrapporre l’altra domanda: “Gli Stati che cosa dovrebbero non fare, per il bene dell’uomo?” Sotto molti aspetti, proprio grazie ai terribili eventi degli ultimi anni abbiamo visto che cosa gli Stati sono riusciti a conseguire col loro modo di agire: hanno appunto portato l’umanità a questa terribile catastrofe. Non si può negare che sono stati gli Stati, ad aver portato l’umanità a questa terribile catastrofe!
Ma allora non sarebbe più logico riflettere una buona volta, se uno, dopo aver visto che con le proprie azioni fa danni di ogni genere, invece di continuare a chiedersi: “Ora, come faccio le cose diversamente?” non sarebbe più utile se per una volta piuttosto si dicesse: “Forse è meglio che io lasci fare a un altro ciò che io stesso ho fatto male”? Qui, vedete, magari la domanda viene deviata su un binario completamente diverso.
Forse bisogna metter mano alle questioni internazionali più importanti, se si vuole fare qualcosa di utile per rimediare a ciò che provoca tutte quelle crepe e fenditure nella casa composta dai diversi Stati abitati dall’attuale umanità. Forse bisogna chiedere: “Che cos’è che provoca tutte queste crepe? Da cosa dipende il fatto che gli Stati hanno trascinato gli esseri umani in questa terribile catastrofe bellica?”
Sicuramente negli ultimi tempi sono diventate internazionali due cose; fra le altre cose sono diventati internazionali il capitalismo e la forza lavoro umana. Indubbiamente, una ‘Società delle Nazioni’ o un qualcosa che le somigli, ce l’avevamo già: era la lega basata sul capitale internazionale. E c’era anche un’altra ‘Società delle Nazioni’ che era in via di realizzazione e che oggi si impone con forza: è quella basata sull’internazionalità della forza lavoro umana. E bisognerà risalire a queste due cose, se si vogliono gettare semi germi fecondi per una Società delle Nazioni che a questo punto possa veramente essere costruita su ciò che riguarda l’uomo in quanto tale.
Riguardo al capitale, vediamo proprio che moltissime persone ritengono che la maniera di gestirlo nel corso del tempo, che ha portato al cosiddetto capitalismo, vada in gran parte proprio contro gli interessi di una grande parte dell’umanità, e che inoltre molto di ciò che vi sta dietro abbia fatto sì che arrivassimo ad eventi così terribili. E da molte parti si leva il grido (che si esprime in un’opposizione a questo capitalismo) che urla in modo estremo che tutto l’ordinamento sociale umano costruito sul capitalismo vada cambiato, che la gestione capitalista dell’economia privata debba piegarsi a quella che oggi si è usi chiamare ‘socializzazione’. Questo, associato ad un certo sentimento nei confronti della forza lavoro umana, oggi dà alla vita internazionale la sua coloritura. Bisogna continuare sempre a ripeterlo: per quanto poco chiaramente emerga nei pensieri che la popolazione proletaria di tutto il mondo esprime coscientemente, inconsciamente, in fondo all’anima di un numero di persone che si contano a milioni, vive il sentimento che nel corso dello sviluppo del capitalismo la forza lavoro umana ha assunto un carattere che non deve più avere.
Cominciamo guardando in queste due direzioni. Volendo capire in tutta chiarezza il capitale, la gestione capitalistica della vita economica, dobbiamo separarlo molto nettamente da ciò cui oggi è legato. Al giorno d’oggi a quello che viene chiamato ‘capitalismo’ sono annesse due cose: una delle due non è affatto separabile dal capitalismo; l’altra invece bisogna separarla. Attualmente le imprese economiche, che possono esistere in virtù del capitale, si fondono con la proprietà privata del capitale. Però dobbiamo chiederci se queste due cose siano separabili l’una dall’altra. Infatti la gestione privata delle imprese economiche, che dipende dalla presenza maggiore o minore di capacità umane individuali, questa gestione privata, che per la sua attività ha bisogno di uno strumento, cioè del capitale, non la si può abolire. Se cerchiamo in qualche modo di capire senza pregiudizi quali siano le condizioni che consentono all’organismo sociale di vivere, ci troveremo sempre a doverci dire: l’organismo sociale non può vivere se gli si sottrae la sua sorgente più importante, ossia ciò che vi fluisce grazie alle capacità individuali che una o l’altra persona possono acquisire in diverse misure. Ciò che va in direzione del capitale deve andare anche in direzione delle facoltà umane individuali. E questo significa che in futuro, nello Stato, ciò che le facoltà umane individuali dovranno apportare alla vita sociale non potrà essere in alcun modo separabile dal suo strumento, ovvero dal capitale.
Invece la proprietà privata del capitale, la proprietà di capitale privato, è una cosa diversa. La proprietà di capitale privato ha una funzione sociale diversa da quella della gestione, per mezzo delle facoltà umane individuali, delle aziende cui il capitale è necessario. Il fatto che qualcuno, in un modo qualsiasi, acquisisca o abbia acquisito del capitale privato lo mette in una certa posizione di potere sugli altri esseri umani. Questo potere, che in linea di massima sarà un potere economico, non può essere regolato in nessun altro modo che connettendolo al sistema giuridico dell’organismo sociale. Quello che porta veramente forze feconde all’organismo sociale è il lavoro che le capacità individuali svolgono per mezzo del capitale. Invece ciò che danneggia l’organismo sociale è che persone che non sono in grado di svolgere da sé questo lavoro con le proprie capacità individuali, tuttavia per un motivo qualsiasi siano stabilmente in possesso di capitale. Perché così hanno potere economico. Infatti che cosa significa avere capitale? Avere capitale significa far lavorare un certo numero di persone secondo le proprie intenzioni, avere potere sul lavoro di un certo numero di persone.
La situazione può essere risanata solo se tutto ciò che nell’organismo sociale deve essere elaborato per mezzo del capitale non viene separato dalla personalità che vi sta dietro con le sue capacità individuali. Mentre invece il fatto che a possedere il capitale siano persone che non immettono le loro capacità individuali nella gestione del capitale, proprio questo fatto fa sì che nell’organismo sociale si continui a separare la fecondità dell’azione del capitale da quello che è il capitale stesso, il che può anche avere conseguenze molto, molto nocive per la convivenza sociale. Cioè, in questo nostro momento storico ci troviamo di fronte alla necessità di separare il possesso del capitale dalla gestione del capitale. Questa è una questione. Per ora lasciamola stare così. Fra un attimo vedremo come si potrebbe cercare di risolvere questo problema.
Il secondo problema è quello del peso sociale della forza lavoro umana. Per capire il peso sociale della forza lavoro umana bisogna riuscire a capire che cosa ha attraversato le anime della popolazione proletaria negli ultimi decenni, bisogna capire quanto sia stato dirompente in queste anime ciò che Karl Marx e chi lavorava nella sua direzione hanno detto a proposito di questa forza lavoro. Ciò che Karl Marx ha detto nella sua teoria del plusvalore ha colpito le anime proletarie galvanizzandole! Perché? Perché in loro c’erano sentimenti che mescolavano questo problema della forza lavoro umana con i problemi più profondi riguardanti la dignità umana e, in generale, un’esistenza degna dell’essere umano. Marx dovette rivestire ciò che aveva da dire sul peso sociale della forza lavoro umana con parole che sottintendevano che fino a quel momento, a causa dell’ordinamento economico capitalistico moderno, la forza lavoro umana non era ancora stata liberata dal carattere di merce. Nel processo economico circolano merci; ma nel processo economico moderno non circolano soltanto merci; non sono soltanto le merci, a seguirvi le leggi della domanda e dell’offerta; sul mercato delle merci, che in questo caso bisogna chiamare mercato del lavoro, sono in offerta anche le forze lavoro umane, che vengono pagate nello stesso modo in cui, del resto, vengono pagate le merci. Nonostante l’esistenza del contratto di lavoro moderno, quando chi deve immettere sul mercato la propria forza lavoro umana vede che la sua forza lavoro viene mercificata, sente che il suo valore di essere umano è stato degradato. Infatti questo contratto di lavoro moderno viene stipulato con la premessa che il dirigente del lavoro (in questo caso l’imprenditore) sottrae all’operaio la sua forza lavoro in cambio di un risarcimento che appunto si dimostra necessario sul mercato economico. In breve: la forza lavoro viene fatta merce.
Ma questo problema si potrà risolvere solo se non ci si ferma a ciò che ha detto Marx. Oggi sarà una questione vitale per ciò che bisogna raggiungere (sia da parte dalla popolazione proletaria, sia da parte delle cerchie borghesi dirigenti), cercare proprio su questo punto una liberazione, imparando a superare nel modo giusto quanto Karl Marx è riuscito a dare alla popolazione proletaria in questo ambito. Ovunque ci siano persone che credono di pensarla assolutamente in favore del proletariato in senso sociale, sotto c’è sempre il sentimento che chi non possiede niente oltre alla propria forza lavoro deve appunto procurarsi un salario; cioè deve mercificare la propria forza lavoro. “Qual è il modo migliore di mercificare la propria forza lavoro?” La domanda viene posta più o meno così: “Come posso fare per guadagnare di più?” Non si risolverà mai questo problema senza che ne scaturiscano nuove rivolte sociali, se non si avanza l’esigenza opposta: “Come si può spogliare la forza lavoro umana del carattere di merce? Come si può fare in modo che nell’organizzazione sociale la forza lavoro umana da adesso in poi non sia più una merce?” Di fatto nel lavoro succede, in senso vero e proprio, così: con il lavoro comune (adesso chiamiamolo lavoro), con il lavoro comune di chi lavora con le mani e di chi dirige con la mente viene prodotto qualcosa. La domanda è questa: come si può creare un rapporto soddisfacente fra questa produzione comune di qualcosa per il mercato delle merci e quelli che oggi vengono chiamati il ‘lavoratore dipendente’ e il ‘datore di lavoro’?
Tuttavia queste sono le due domande più importanti che oggi si possono e si devono porre sull’intera vita internazionale dei popoli: nella vita sociale umana che cosa si cela nell’impiego del capitale? E dall’altra parte che cosa si cela nel fluire della forza lavoro umana in questa vita sociale umana?
Al giorno d’oggi l’operaio (osserviamone la situazione), anche se non lo dice, anche se non ha studiato Karl Marx, può pensare in questa direzione fino alla fine, l’operaio può sentire: “Insieme all’imprenditore io realizzo il mio prodotto. Ciò che viene prodotto sul posto di lavoro viene fuori da noi due”. Perciò l’unica cosa importante è: come avviene la spartizione fra quello che oggi viene chiamato ‘imprenditore’ e quello che oggi è il lavoratore manuale? E deve avvenire una spartizione che possa essere soddisfacente per entrambe le parti nell’immediato caso concreto.
Infatti in realtà che cos’è il contratto fra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente? Non voglio scadere in sediziose frasi fatte. Anzi vogliamo osservare tutta questa situazione in modo del tutto oggettivo, oggettivo come viene formulata (anche se mai con concetti chiari) dal proletario di oggi, ma com’è nei sentimenti inconsci di questi proletari in modo molto profondo e intenso. Dato che, a causa del potere economico dell’imprenditore, l’operaio non è in condizione di stipulare un contratto su ciò che essi producono insieme come merce, o su quello che è il guadagno comune di questa merce, o su quanto spetta all’uno e quanto all’altro, dato che può solo stipulare un contratto di lavoro, il lavoratore finisce in uno stato d’animo per cui ha il sentimento che in sostanza una forza lavoro qualsiasi non possa mai essere paragonata ad una qualsiasi merce. E tuttavia oggi si dice che nel processo economico si scambia merce con merce, o meglio con il suo rappresentante, il denaro. E si dice anche che si scambia merce o meglio il suo rappresentante, il denaro, con forza lavoro umana. Così oggi l’operaio ha il sentimento di lavorare sì insieme all’impresario alla produzione delle merci, ma di venire imbrogliato, in realtà, in quanto la parte che gli spetta appunto non gli arriva.
Ma così si richiama già l’attenzione sul fatto che in realtà le capacità umane individuali che devono servirsi del capitale sono su una china scivolosa. Perché ciò che queste facoltà umane individuali riescono a fare gestendo il capitale con la mente o con la forza fisica, una grande parte dell’umanità lo sente come un imbroglio, come una specie di frode. Ora, per il momento non vogliamo indagare se questo sia vero o no; ma lo si sente così. E sul sentimento si basano le quei fatti che al presente parlano con voce chiara e forte.
Ma così arriviamo al fatto che le facoltà individuali delle persone devono radicare in qualcosa che oggi nell’organismo sociale si è messa di traverso, o almeno si può mettere di traverso. Al giorno d’oggi, nell’organizzazione economica capitalistica moderna, questo sfruttamento delle capacità individuali, è legato all’acquisizione della proprietà dei mezzi di produzione; quindi è legato all’acquisizione di un determinato potere economico, di una superiorità economica. Ma ciò che si può esprimere in un potere economico, ciò che si può esprimere in questa superiorità di un uomo sull’altro, non è altro che ciò che nella vita umana spegne il rapporto giuridico.
Ora, chi osservi lo strano modo in cui un rapporto giuridico si amalgama con l’impiego delle facoltà umane individuali forse, com’è successo a me, dovrà osservare qualcosa che nell’intera natura dell’organismo sociale ha radici più profonde delle cose che molto spesso oggi si cercano. Sulla base di queste premesse, è ovvio che ci si chiede: “Com’è la legge? E com’è l’impiego delle capacità individuali che devono sempre essere produttive, che devono continuare a sgorgare dalla loro fonte originaria nell’essere umano? Come si giustifica lo sfruttamento delle capacità individuali nell’organismo sociale?”
Chi abbia conservato uno sguardo imparziale sulla vita umana poco a poco comprenderà che in un organismo sociale bisogna distinguere tre sorgenti della vita umana del tutto diverse, originarie. Queste tre sorgenti originarie della vita umana confluiscono in modo del tutto naturale nell’organismo sociale, cooperano fra loro. Ma potremo esaminare la maniera in cui cooperano solo se si saremo in grado di osservare la realtà dell’uomo in quanto tale, che deve essere una unità, un essere unitario all’interno della trinità sociale.
Inizialmente nell’organismo sociale ci sono queste facoltà umane individuali. E possiamo osservarne lo spettro a partire dalle opere spirituali più elevate nell’arte, nella scienza, nella vita religiosa, scendendo poi al modo di impiegare le facoltà umane individuali fondate più o meno nell’anima o nel corpo, fino a quel modo di impiegare le facoltà umane individuali che devono essere utilizzate nel processo più ordinario, materialistico, poggiante sul capitale, fin dentro quel processo economico che generalmente, con una parola negativa, si chiama ‘il settore materiale’. C’è una corrente unitaria che discende dalle altre prestazioni spirituali fino lì. All’interno di questo spettro, poi, tutto si basa sul relativo impiego, sull’impiego fecondo, di quanto bisogna sempre di nuovo tornare a tirar fuori dalle sorgenti primigenie della natura umana, per farlo affluire nel modo giusto nell’organismo sociale sano.
In una maniera completamente diversa vive, nell’organismo sociale sano, tutto ciò che si basa sul diritto. Perché il diritto è una cosa che vige fra uomo e uomo semplicemente per il fatto che l’uomo appunto è un uomo. Nella vita sociale dobbiamo avere la possibilità di organizzare le nostre capacità individuali. Meglio le organizziamo, e tanto meglio è per l’organismo sociale in generale. Più libertà abbiamo nel tirar fuori le nostre capacità individuali e sfruttarle, e tanto meglio sarà per l’organismo sociale. Nella vita reale, per chiunque non parta da teorie, da dogmi, ma sia in grado di osservare la vita reale, questo stride con tutto quello che deve esserci fra gli uomini come diritto. Nel diritto non viene contemplato nient’altro che ciò che rende tutti gli uomini uguali l’uno rispetto all’altro.
E un terzo elemento, che entra in campo nella convivenza sociale umana e che a sua volta è completamente diverso dagli altri due (dalle facoltà umane individuali dovute alle differenze della natura umana e dal diritto, che deriva dalla coscienza giuridica), è il bisogno dell’essere umano, che dipende dal fondamento di natura della vita del corpo e dell’anima e che deve essere soddisfatto nell’ambito della vita economica attraverso la produzione, la circolazione e il consumo.
Questa triarticolazione dell’organismo sociale non è stata inventata pensando in modo astratto, questa triarticolazione esiste, c’è. E l’unica domanda può essere: come si può regolare in modo adeguato questa triarticolazione, in modo che non ne venga fuori un organismo sociale malato, ma uno sano? E qui (ovviamente in questi accenni posso solo presentare i risultati) qui l’osservazione imparziale dell’organismo sociale porta a dirsi: nel corso più recente della storia, proprio il misconoscimento di questa differenza radicale delle tre sorgenti della vita sociale ci ha portati a fare questa disanima che facciamo già oggi e nella quale ci addentreremo sempre più. Negli ultimi tempi queste tre correnti della collaborazione umana sono state mischiate in modo illegittimo.
Come si è cominciato? Quando, negli ultimi tempi, la vita economica era, diciamo, come sotto ipnosi, è parso che facesse parte del progresso dell’umanità fondere con lo Stato puramente politico (che è proprio l’ambito in cui tutti gli uomini sono uguali, il diritto vero e proprio) prima certi rami del settore economico, soprattutto i telegrafi, le ferrovie, e così via, dunque quei rami dell’economia che sembravano i più adatti ad essere combinati con lo Stato, al quale, come per la vita economica, le persone guardavano come sotto ipnosi. E in sostanza che cosa fa il pensatore socialista di oggi? Su questo fronte non fa che calcare l’eredità del pensiero borghese. Adesso vuole che non vengano statalizzati o socializzati solo certi singoli rami economici che paiono adatti. Vuole socializzare o tutta la proprietà o tutte le aziende. Vuole solo trarre l’ultima conseguenza di ciò che è stato fatto in questo senso.
Ora si potrebbero citare molte cose. Basti solo menzionare nell’ambito della politica estera, fra le fatali cause della guerra che si stavano preparando da anni, il ruolo che ha avuto quella che posso limitarmi a chiamare con l’unica parola ‘linea ferroviaria di Bagdad’. Di cose del genere se ne potrebbero citare intere centinaia. Che significato hanno queste cose? Queste cose indicano un affiatamento fra gli interessi economici e i puri interessi statali. Sicché alla fine risulta che gli amministratori della vita statale devono prestarsi a fornire servizi che possono fornire in virtù del loro potere perseguendo interessi economici. E in tal modo nei conflitti fra gli interessi economici vengono introdotti gli interessi politici degli Stati. Negli ultimi tempi l’intera configurazione degli Stati ha presentato questa mescolanza con la vita politica.
Chi era capace di osservare la vita dell’Europa centrale da questo punto di vista (come era capace di osservarla nella regione austriaca chi vi sta parlando adesso) sa che a ciò che oggi ha fatto sì che lo Stato austriaco venga trattato come se non esistesse, ha contribuito molto ciò cui le persone pensano di meno. Quando negli anni Sessanta in Austria si pensò di organizzare una vita costituzionale, in realtà questa vita costituzionale fu fondata tirando in ballo, per la configurazione dello Stato, solo la vita economica. Per la camera dei Länder austriaca le elezioni furono organizzate in modo che votarono quattro curie elettorali: quella dei grandi proprietari terrieri, quella delle camere di commercio, quella delle città, dei mercati e dei siti industriali e quella dei comuni rurali, solo puri gruppi economici. Ciò che questi gruppi economici elessero in Austria fece la legge. Ovviamente, quella che qui venne fuori come legge da puri interessi economici non era in grado di venire a capo di qualcosa che emergeva dalle basi spirituali individuali dell’umanità, cioè degli interessi dei popoli del cosiddetto Stato austriaco. E così le cose si confusero, e fu trasformato in diritto ciò che gli eletti dalle quattro curie economiche vollero trasformare in diritto in uno Stato apparente basandosi sui propri interessi economici. A sua volta ciò si confuse con quanto, per via dei sentimenti dell’epoca più recente, si confonde più che volentieri: si confuse con gli interessi e con le aspirazioni spirituali dell’umanità, con tutto ciò che si può chiamare l’intera entità della vita spirituale.
Se da una parte nella vita statale moderna è stata tirata dentro la vita economica, dall’altra parte in questa vita statale è stata tirata l’intera vita spirituale. Anche lì si è visto ciò che si trova proprio nel senso del progresso moderno dell’umanità. L’ideale è diventato quello di fare a poco a poco di tutta la vita spirituale un settore della vita politica statale. Al giorno d’oggi quanto è rimasto di ancora libero? Singoli rami dell’arte e singoli rami della scienza di cui si occupano persone che non vogliono essere assunte da uno Stato e simili. Oggi non si riesce ancora a capire che la vita spirituale può inserire la propria realtà nell’organismo sociale nel modo giusto solo se questa vita spirituale, totalmente emancipata da tutto il resto, è in una posizione di autonomia, se può decidere da sé come gestirsi, come strutturarsi. Mentre negli ultimi tempi si è puntato sempre di più a statalizzare tutto l’apparato scolastico, nelle forze evolutive proprio dell’uomo moderno c’è l’impulso a provocare una totale inversione di marcia in quest’ambito. Si pensi soltanto: se l’insegnante più basso non è asservito allo Stato, ma se l’insegnante più basso è capace di inserirsi in una vita spirituale liberamente organizzata, se è capace di inserirsi in un organismo spirituale, com’è diversa la sua possibilità di inserire nell’unità dell’organismo sociale umano ciò che vuole fare, com’è diversa per lui questa possibilità, da quando invece lo Stato pretende che lui faccia o non faccia qualcosa per l’uomo in crescita!
Forse, a causa di alcune cattive esperienze che sono state fatte, coloro che si pronunciano su queste cose credono che le persone che per esempio devono occuparsi di scienza, che a sua volta è così importante, vengano assunti in base a certe considerazioni, ma che la scienza stessa e il suo insegnamento siano liberi. Leggi del genere si trovano nei diversi Stati. E ci sono anche molte persone che affermano che sia così. Chi conosce realmente le cose sa che queste violazioni avvengono non solo nell’assunzione, non solo nella gestione delle cariche in ambito culturale, ma anche nel lavoro stesso. La vita spirituale libera, che si può inserire vigorosamente con la sua stessa verità nell’organismo sociale sano, deve anche potersi sviluppare liberamente e separatamente dalla vita statale ed economica in piena autonomia.
Conosco le opposizioni a buon mercato che si possono fare: «Se torniamo a liberare la scuola dall’obbligo statale, se ognuno potrà mandare i propri figli a scuola per il suo fervore per la formazione culturale, allora ricadremo di nuovo nell’analfabetismo.» Le persone che dicono così fanno i conti con i sentimenti vecchi nella situazione nuova. Vedremo subito che questa situazione nuova provoca cose completamente diverse da quelle che si immaginano queste persone con i sentimenti vecchi. Ma risulta (bisogna premetterlo) che la reale verità può vivere nell’organismo sociale solo se c’è anche la partizione necessaria e se comprende questo: che sono dati: l’organismo spirituale, che si fonda sulle capacità individuali fisiche e animiche delle persone (che potremmo anche chiamare la vita spirituale in tutta la sua estensione); l’organismo giuridico, che comprende l’ambito dello Stato politico vero e proprio; e la circolazione dei processi economici, nella pura produzione, circolazione e consumo delle merci.
Non crediate che così vada distrutta l’unitarietà della vita. Al contrario, ognuno di questi settori dell’organismo sociale sano sarà risanato proprio perché ricaverà le sue forze da se stesso e ogni settore potrà dare all’altro il suo relativo contributo. E così chi è orientato al risanamento della nostra situazione sociale deve pretendere l’autonomizzazione di queste tre parti, che negli ultimi secoli un pensare confuso e un agire confuso hanno fuso insieme, dunque l’autonomizzazione di queste tre parti: della vita spirituale, della vita giuridica e della vita che comprende la circolazione del processo economico.
Lo Stato non può amministrare l’economia. La vita economica deve necessariamente essere resa autonoma secondo le condizioni che le sono proprie. Nella vita economica, fino ad un certo grado, questo è anche già successo nella vita corporativa, nella vita sindacale. Ma questa vita corporativa, sindacale, la si è sempre tornata a confondere in modo inappropriato con le relazioni giuridiche. Ciò che è necessario nella vita economica è il principio associativo, dunque l’unione di certi gruppi di persone secondo i bisogni di consumo e la produzione necessaria, l’unione di persone secondo gli interessi professionali e la gestione di ciò che all’interno di questi gruppi circola secondo i relativi bisogni delle persone, come solo un giudizio competente sulla vita economica stessa può dimostrare.
Ora in questa vita si inseriscono le azioni della forza lavoro umana, si inseriscono le azioni del capitale. Posso solo accennare in pochi tratti come avvengono queste azioni. L’impiego della forza lavoro umana nell’organismo sociale consiste nel rapporto fra chi lavora con le mani e un qualche dirigente intellettuale che deve servirsi del capitale, in quanto gestisce una data attività economica o in generale un qualcosa di utile all’organismo sociale. Questo rapporto può essere soltanto un rapporto giuridico. Il rapporto che l’operaio instaura con l’imprenditore deve basarsi su una legge, cioè deve basarsi su un ambito diverso da quello della vita economica stessa. In tal modo avviene qualcosa di radicalmente diverso da ciò che abbiamo oggi. Ma oggi, di fronte a fatti estremi, bisogna anche arrivare a giudizi estremi. Oggi la vita economica dipende da un lato dal fondamento di natura. L’uomo deve fronteggiare il fondamento di natura con giudizio competente. In un certo modo può far fruttare un appezzamento o l’altro con il proprio impegno e con la tecnica, ma solo entro certi limiti. In grande misura l’uomo dipende dal fondamento di natura. Come, da un lato, dipende dal fondamento di natura, così, dall’altro, la vita economica deve dipendere anche da ciò che deve essere stabilito sulla base dello Stato giuridico, nella cooperazione di tutti gli uomini, indifferentemente dal tipo di lavoro che svolgono. Che lavorino con la testa o con le mani, essi instaurano un rapporto nell’ambito dello Stato giuridico, che tiene conto dell’uguaglianza fra gli uomini. E ora questo rapporto non viene instaurato in modo associativo, come dev’essere nella vita economica, ma in modo puramente democratico, in un modo per cui davanti alla legge le azioni dello Stato in ambito politico sono uguali per tutti gli uomini. Qui si stabilisce ciò che riguarda l’impiego della forza lavoro umana, si stabilisce ciò che riguarda il rapporto fra l’operaio e il dirigente. Qui si può stabilire solo un giorno lavorativo massimale o minimale e il tipo di lavoro che una persona può svolgere. Ciò che si stabilisce – bisogna tenerne conto – retroagirà sull’agiatezza pubblica. Se un qualche settore della produzione non dovesse prosperare perché richiede troppo lavoro giuridicamente impossibile, non dovrà essere portato avanti; allora si dovrà rimediare in un altro modo. La vita economica deve arrivare da entrambi i lati ai confini: da una parte al confine con il suo fondamento scientifico, dall’altro lato al confine con la giurisprudenza. In breve, arriviamo da un settore dell’organismo sociale all’altro settore, allo Stato politico, in cui viene regolamentato nel senso più vasto tutto ciò che è giuridico e tutto ciò che ha a che fare con il diritto.
E ora arriviamo al terzo settore, che a sua volta deve regolarsi e normarsi in base alle sue stesse condizioni e necessità: è l’organizzazione dello spirituale. Lo spirituale deve basarsi sul fatto che da un lato c’è la libera iniziativa dell’uomo, di modo che l’individuo sia in condizione di offrire individualmente all’umanità le proprie forze nella vita spirituale libera. Dall’altro lato deve esserci la libera comprensione e il libero accoglimento di queste forze spirituali. Come può avvenire? Può avvenire soltanto se la vita spirituale, che nella vita scolastica, in tutti i settori spirituali, è libera, viene gestita esclusivamente dall’organizzazione spirituale, perfino in quell’esercizio della vita spirituale che si esprime nell’impiego del capitale. Com’è possibile? È possibile solo perché a questo punto avviene veramente quella socializzazione che non consiste nel fare della società umana una cooperativa unitaria, nella quale magari si fanno valere solo gli interessi economici e tutto deve essere organizzato in base agli interessi economici. Se l’organismo spirituale si separa in modo sano, liberandosi dagli altri due settori (dall’organismo statale e da quello economico che abbiamo menzionato) e se si è in condizione di fare in modo che quell’organismo spirituale provveda anche all’amministrazione dell’uso del capitale e dell’intera vita economica, cioè se l’organizzazione spirituale soddisfa tutti i punti necessari della vita economica, se l’organizzazione spirituale inserisce l’uomo nella vita economica con le sue capacità individuali, soltanto allora si arriva ad una socializzazione sana e feconda. Infatti solo così si è in grado di separare quella che è la proprietà privata del capitale dalla gestione di questo capitale in favore dell’organismo sociale sano.
E allora che cosa succederà? Ecco, allora succederanno alcune cose. Voglio farvi solo alcuni esempi. È del tutto ovvio che nel processo economico l’uomo acquisisce capitale privato, proprietà. Ma tanto poco si potrà separare direttamente l’uso di questo capitale privato dall’impiego delle capacità individuali finché queste capacità individuali possono essere attivamente esercitate, tanto più sarà necessario, quando la sua attività cessa, effettuare la separazione della proprietà privata dall’individuo. Perché tutta la proprietà privata viene certamente acquisita grazie a ciò che avviene nelle forze sociali e deve tornare a rifluire nell’organismo sociale dal quale è stata tratta. Cioè dovrà più o meno succedere che l’organismo giuridico faccia una legge (perché la proprietà è un diritto, il diritto di utilizzare in modo esclusivo un oggetto o una cosa qualsiasi), ci dovrà essere una legge per cui ciò che è stato acquisito come proprietà privata nella vita economica (certamente per libera disposizione di chi l’ha acquisita) dopo un certo periodo deve essere restituita all’organismo spirituale, che a questo punto dovrà cercare un’altra individualità che sia capace di utilizzarla nel dovuto modo.
Qualcosa di simile dovrà succedere per tutta la proprietà oggi esistente, come per la proprietà di certe cose spirituali che si producono e che a trent’anni dalla morte appartengono all’umanità in generale. Non si può affatto dire che a qualche proprietà di altro tipo si abbia più diritto che a questa proprietà spirituale. Per quanto a lungo si possa trattenere ciò che si è acquisito, dovrà arrivare il momento, sia per la proprietà ereditata che per la proprietà acquisita in altro modo, in cui per libera disposizione del proprietario privato ciò di cui è entrato in possesso con il lavoro individuale venga restituito all’organismo spirituale. Oltre a questo succederà l’altra cosa, cioè che coloro che nel processo economico acquisiscono proprietà privata, liberamente, per libera comprensione, possano cercarsi qualcuno che ritengono individualmente dotato per svolgere determinate mansioni. Ma la forza dello Stato giuridico, dello Stato politico vero e proprio renderà impossibile che una parte considerevole della proprietà privata finisca in soli interessi che consentono a qualcuno di impiegare per sé il lavoro privato e il lavoro di altre persone senza mettere a disposizione del processo economico della vita collettiva le proprie capacità individuali. È possibile, e sarà reso possibile da questi tre settori, che la produttività umana rimanga sempre legata alle facoltà individuali, alle quali deve essere legata in modo consono.
Oggi questa triarticolazione dell’organismo sociale sembra ancora un pensiero estremo. E tuttavia se non si seguirà questo pensiero, se non si vorrà fare il primo passo verso la cima che dobbiamo raggiungere in questa direzione nell’ordinamento sociale, se non si capisce che le azioni più immediate, più quotidiane, più prossime devono essere fatte conoscendo questa direzione, non si agirà nel senso dell’evoluzione umana, ma si agirà contro questo senso dell’evoluzione umana. Al giorno d’oggi ci troviamo di fronte a dei fatti che hanno chiamato in campo i sentimenti archetipici degli esseri umani. Ad essi dobbiamo rispondere con pensieri archetipici dell’organismo sociale umano. E uno di questi pensieri archetipici è questa triarticolazione.
Per ora perfino coloro che non ritengono che questo pensiero sia una pura utopia, ma che magari lo considerano una cosa assolutamente pratica, forse pensano che possa riferirsi solo alla gestione interna degli Stati.
A questo punto vi chiederete: “E tutto questo cos’avrebbe a che fare con la Società delle Nazioni?” Tutto questo può proprio essere, al tempo stesso, la politica estera più concreta! Infatti cercando di rispondere alla domanda: “Che cosa dovrebbe non fare lo Stato?”, considerando le cose in questo modo si risponderebbe: “Lo Stato dovrebbe evitare di immischiarsi nelle funzioni della vita spirituale e nelle funzioni della vita economica.” Lo Stato deve limitarsi a quell’ambito che è il settore puramente politico, puramente giuridico. Ma così anche nella vita della politica estera si presenterà come necessaria conseguenza che su tutta la Terra gli interessi economici di una regione si troveranno a fare direttamente trattative, scambi e a commerciare con gli interessi economici di un’altra regione, e lo stesso varrà per i rapporti giuridici e per quelli spirituali. Se in una regione c’è libertà spirituale, da questo ambito spirituale non potrà mai nascere qualcosa che si possa scaricare in un qualche evento bellico. Lo si può già osservare in piccolo. Gli interessi culturali possono intrecciarsi con i conflitti bellici solo se si mette di mezzo la vita statale.
In realtà anche qui si può solo giudicare in base all’esperienza; ma anche piccole esperienze possono essere eloquenti. Avendo un occhio per queste cose, si può vedere che per esempio in Ungheria, quando in Ungheria la vita statale non si era ancora mescolata in ogni cosa nelle aree di lingua tedesca, nelle numerose regioni tedesche la gente che appunto aveva bambini tedeschi li mandava nelle scuole di lingua tedesca, i Magiari che abitavano nelle regioni tedesche li mandavano nelle scuole magiare, e viceversa: i Tedeschi che abitavano nelle regioni con scuole magiare mandavano i propri figli nelle aree in cui c’erano scuole tedesche. Questo scambio di bambini veniva coltivato liberamente.
Era un libero scambio del patrimonio culturale fra le diverse lingue, così come si può coltivare liberamente lo scambio di altri patrimoni culturali da Paese a Paese, da città a città. Questo libero scambio del patrimonio culturale delle diverse lingue significava per l’Ungheria una profonda pace in tutte le regioni in cui lo si coltivava. In questo libero scambio si imprimeva l’impulso interiore dei popoli. Quando si è immischiato lo Stato, le cose sono cambiate. Ciò che allora successe nella vita politica interna, in tempi più recenti è continuato a succedere anche nella politica estera. Chi è capace di vedere queste cose ha visto che in realtà gli intellettuali tedeschi, in sostanza, erano profondamente pacifici. Dallo stato d’animo di quegli intellettuali tedeschi non si sarebbe mai accesa un’atmosfera di guerra! Ma il rapporto che essi avevano con lo Stato suscitò quel sentimento che si collegava allo Stato. Non lo dico per faziosità o altro del genere: si tratta di comprendere i fatti.
La vita economica di un organismo sociale triarticolato potrà esplicarsi anche nella vita economica internazionale proprio grazie al fatto che non è lo Stato, ad intavolare i rapporti economici, ma persone che crescono in territori nei quali non c’è soltanto un Parlamento, ma tre Parlamenti: un Parlamento spirituale, uno economico e uno statale, e nei quali non c’è soltanto una amministrazione, ma tre amministrazioni che collaborano. Solo in territori del genere potranno crescere persone che poi, in un’organizzazione internazionale, saranno capaci di esercitare il ruolo giusto. E non sono lo Stato e l’economia ad essere importanti, ma l’uomo, l’uomo nella sua pienezza ed interezza.
Se il ruolo di chi contribuisce spiritualmente viene plasmato dall’organizzazione spirituale emancipata, sarà diverso da quella commedia dello scambio di professori che per esempio avviene fra gli Stati centrali e l’America, e che appunto non può che essere fatta da persone che si siano legate allo Stato in un modo che non è consono. Ci si occuperà di tutte queste cose in modo sano anche in ambito internazionale, se prima ce ne si occuperà in modo sano già nel singolo territorio sociale. Allora da questi singoli territori sociali verranno fuori persone che saranno capaci di contribuire anche alla vita internazionale nel modo giusto.
Questa mi sembra essere la risposta che di può dare, in modo da non considerare solo l’armonia fra i diversi popoli, ma da prendere in considerazione il contributo che ogni popolo può dare per i veri ideali futuri dell’umana Società delle Nazioni. Così può parlare anche un Tedesco; infatti anche se i Paesi dell’Europa centrale o la Germania venissero esclusi dalla prossima Società delle Nazioni, risanando il proprio territorio possono comunque lavorare per la sana Società delle Nazioni del futuro; possono dare il loro contributo per questo.
Questa è una risposta che ognuno può dare per conto suo. È una risposta che ogni Stato può anche sviluppare come propria politica verso l’esterno. Infatti, anche se gli Stati che entrano in una qualche trattativa di pace per esempio con il regno tedesco eleggono da sé i loro delegati di pace, non si potrà impedire quel che risulta dal caotico regno tedesco di prima: bisogna che siano i tre settori (l’organismo economico, quello statale e quello spirituale) ad eleggere ciascuno in modo specifico i suoi delegati, che poi possano rappresentare anche all’estero l’organismo sociale sano. Questa è politica vera, possibile, veramente reale.
Negli ultimi decenni ho esposto spesso queste idee; come forse alcuni di voi hanno visto, le ho anche riassunte in un appello che adesso viene pubblicato nei periodici sottoscritto da un numero di persone molto soddisfacente per me, di alcune delle quali non c’è alcun dubbio che abbiano il diritto di esprimere il loro parere su queste cose, e spesso mi sono dovuto sentir dire: “Con una partizione del genere si rievoca una vecchia cosa che ripugna proprio ai sentimenti di una grande parte dell’umanità moderna: che si torni a ripartire l’umanità venga nei vecchi tre ceti: il ceto contadino, il ceto militare e il ceto intellettuale.” È vero il contrario! Non c’è niente di più diverso fra questi vecchi ceti (il ceto contadino, il ceto militare e il ceto intellettuale) e ciò che vogliamo noi; perché non si ripartiscono in classi, in ceti, le persone, come venivano suddivise in passato, ma ciò che è separato dall’uomo, ciò in cui l’uomo vive: viene ripartito l’organismo sociale. E l’uomo è proprio quello che, in quanto essere intero, pieno, in sé compiuto, si potrà sviluppare bene come individuo solo all’interno di questa ripartizione da lui stesso compiuta. Solo quest’uomo liberato, solo lui sarà anche capace di fondarsi su quei pensieri, sentimenti e azioni volitive che devono interagire nella Società delle Nazioni moderna.
Riflettendo su queste cose, si vorrebbe evitare di diventare unilaterali. E lo si diviene facilmente, se ci si basa solo sui propri sentimenti. Perciò adesso, per concludere, dopo aver proposto in modo così estremo ciò che ho spiegato essere necessario per il risanamento dell’organismo sociale e che voglio distinguere da ciò che si è sviluppato fino adesso e che ha portato a questa terribile catastrofe, vorrei citare un’altra persona. Vorrei citare un’altra persona, un uomo al quale mi richiamo spesso come ad un elevato osservatore spirituale di ciò che è avvenuto nell’evoluzione umana fino al presente: a Herman Grimm. Una volta, in un punto in cui esponeva i suoi pensieri sull’evoluzione sociale umana in epoca moderna, dice: “Osservando l’Europa moderna, da un lato si vede che le persone entrano in collegamento fra loro come prima non ci si sarebbe nemmeno potuti sognare; ma al tempo stesso in quella che chiamiamo ‘la civiltà moderna’ si vede l’introduzione di qualcosa che si manifesta nel nostro armarci per la guerra, – così dice da Tedesco – nel nostro stesso militarismo e nell’armarsi per la guerra degli altri Stati, il che sicuramente non può che sfociare, un bel giorno, nell’attaccarsi. E se si riflette su ciò che potrebbe venirne fuori (le parole suonano veramente profetiche, furono scritte negli anni Novanta, Herman Grimm morì già nel 1901) se lo si vede – pensa Herman Grimm – si capisce che ci potrà essere un futuro fatto solo di conflitti umani, tanto che si preferirebbe fissare un giorno per il suicidio collettivo dell’umanità, affinché essa non debba vivere l’orrore derivante da questa situazione”.
Da quella volta gli uomini hanno visto delle cose derivanti da quella situazione. Quel che hanno visto potrebbe ben condurre a pensieri che allora non potranno più essere considerati utopistici, tanto più dopo aver visto che, proprio agli occhi delle persone pratiche, alcune cose che sono successe veramente dovevano essere utopie, dato che fino a poco tempo prima le avevano ritenute impossibili.
È questo, che oggi non dovrebbe spingere le persone a cambiare il modo di agire, ma a cambiare il modo di pensare, a cambiare i pensieri. In futuro non ci serviranno soltanto istituzioni diverse, in ultima analisi ci servono pensieri nuovi, persone nuove, che possono germogliare solo da una nuova partizione dell’organismo sociale. In sostanza le associazioni internazionali le conoscevamo già! Se ciò che vogliamo raggiungere abbia una base più solida, se offra un sostegno più saldo di quello che consentivano le condizioni precedenti, lo vedremo solo se riavremo veramente le condizioni fondamentali per la convivenza sociale. Qualcosa di simile ad una vita internazionale, non l’abbiamo già vista svilupparsi anche nei matrimoni fra le diverse dinastie principesche? Non ci sarebbe niente da obiettare, se le dinastie dei principi si fossero sviluppate in modo promettente! Allora anche con questo tipo di ‘associazioni internazionali’ sarebbe potuto risultare qualcosa di molto utile, perfino sotto la monarchia! - Abbiamo conosciuto associazioni internazionali diverse, come per esempio la molto concreta associazione internazionale del capitale. Abbiamo conosciuto la socialdemocrazia internazionale. Abbiamo conosciuto diverse cose internazionali. Quanto si basava sull’internazionalità degli istinti familiari è decaduto. E ad uno sguardo spregiudicato si palesa il fatto che anche ciò che costruisce sul potere economico del capitalismo non spirituale decadrà. Ma anche ciò cui mira il socialismo internazionale, in sostanza, è desiderio di potere. In futuro questo potere dovrà cedere al diritto, perché ciò di cui l’uomo, con la sua ambizione di potere, può impadronirsi nella vita sociale può portare al bene dell’umanità solo se si inserisce nella vita giuridica, se viene illuminato dalla vita giuridica.
E così, di fronte a certe cose internazionali, nell’uomo di oggi potrebbe nascere il sentimento che una Società delle Nazioni che sia veramente attiva in modo fecondo per l’umanità debba essere fondata su qualcosa di diverso dalle condizioni precedenti. Deve essere fondata su pensieri del tutto nuovi da parte dell’uomo, su impulsi umani del tutto nuovi, e non sul sangue principesco, non sul potere del capitale o del lavoro. Deve essere fondata sul diritto, sull’uomo nella sua interezza e veramente liberato. Perché solo questo uomo veramente liberato, integro, sveglio per il sentimento internazionale avrà anche la giusta comprensione della luce del diritto internazionale che può illuminarlo.
Dibattito
Primo intervento: l’uditore spiega che la soluzione proposta dal dottor Steiner non gli è ancora chiara. Secondo lui non sarebbe nemmeno possibile liquidare il socialismo, in quanto grande concezione spirituale, nel modo in cui lo ha fatto il dottor Steiner, perché in fin dei conti non è cancellando il nocciolo sano del socialismo, che nascerebbe una nuova giustizia. Certamente l’idea della triarticolazione sembra essere una soluzione, ma è una soluzione arbitraria. Secondo lui, la riforma agraria fa parte della natura dell’epoca. Conclude accennando al fatto che la progressiva diffusione del socialismo dimostra che esso non è un sistema campato per aria, ma corrisponde ad una realtà.
Rudolf Steiner: naturalmente è difficile stabilire se quanto abbiamo potuto accennare in una conferenza, per quanto non troppo breve, debba o meno essere assolutamente chiaro per tutti gli uditori; in fin dei conti è una cosa individuale, e naturalmente ogni uditore avrà la sua opinione in merito. Perciò non voglio rispondere in modo particolare a questa domanda. Vorrei solo fare alcune brevissime osservazioni sugli altri pensieri espressi dall’egregio signore che è intervenuto, soprattutto sulle linee di principio. Se oggi avete seguito almeno un po’ i miei processi di pensiero, forse estremi e perciò apparentemente indimostrabili, forse, dal modo in cui la cosa è stata concepita, avete visto che quel che ho detto non è proprio solo il frutto di un’idea che mi è venuta in mente una bella mattina, né il frutto di altre idee, ma che questi processi di pensiero sono proprio costruiti su ciò che è stato dimostrato da un’altra parte. Non è necessario tornare a dimostrarvi tutto ciò che per esempio ha dimostrato il socialismo! Ho espresso un pensiero, il pensiero che per le anime dei proletari è particolarmente illuminante la teoria concettuale del plusvalore e del suo rapporto con la forza lavoro umana. Poi ho espresso il pensiero che però a questa idea bisogna far fare un altro passo avanti. Con questo credo però di aver anche dimostrato di non voler affatto eliminare quello cui ha accennato l’egregio signore che è intervenuto, cioè il socialismo moderno. Anzi, forse chi mi ha ascoltato con maggiore attenzione dirà anche che nella mia conferenza ho fatto abbastanza accenni proprio all’importanza del socialismo moderno.
Quel che ho detto, non potevo intenderlo diversamente che nel senso dell’esempio che ho fatto. Intendevo dire che se non ci si schiera dalla parte del socialismo moderno, si vive come gli abitanti di una casa che minaccia di crollo e che non si decidono a fare dei restauri, ma si consultano su come collegare tutte le stanze con delle porte per potersi aiutare reciprocamente.
Perciò, se si ha buona volontà, da questo si capisce che peso in realtà io attribuisca al socialismo moderno. E in sostanza non era così difficile dedurne il pensiero, che naturalmente si potrebbe esporre in quaranta, cinquanta conferenze, che quel che c’è già nel socialismo moderno non basta. A questo proposito voglio sottolineare ancora una cosa. Naturalmente anche adesso dovrò essere talmente breve, che eventualmente chi vuole potrà dire che io non dia niente da portare a casa agli egregi uditori. Vorrei solo dire che io ho il massimo rispetto per ciò che il marxismo ha portato soprattutto nel pensiero proletario moderno e anche per tutto ciò che si fonda sul marxismo. Io stesso per un anno sono stato insegnante in una scuola per operai fondata da Wilhelm Liebknecht, e in una certa misura ho collaborato proprio a far familiarizzare gli operai coi pensieri socialisti. E forse posso richiamare l’attenzione sul fatto che non sarebbe proprio sbagliato, se dicessi che credo che almeno un certo numero dei redattori relativamente più anziani dei giornali socialisti tedeschi e perfino degli oratori la cui voce non è proprio ignorata nella Germania di oggi forse sono miei allievi. Perciò non conosco solo il socialismo moderno in quanto tale (dal modo in cui vi ho esposto i miei punti di vista lo si sarebbe già potuto vedere), ma conosco anche l’importanza che questo socialismo ha nella vita del proletariato moderno. Se vi si ha preso parte, posso dire, per decenni, non si ha affatto la necessità di aspettare che ci venga una bella idea speciale per costruire un sistema tanto per averne uno, ma si costruisce appunto su quello che c’è. E chi capisce le cose vede che si ha stima di quello che c’è proprio da ciò che vi si è costruito sopra.
Ma adesso non si può perdere di vista una cosa. Certamente, di per sé, se vengono tenuti in ambito teorico, in sostanza i pensieri non sono altro che sintomi di ciò che si muove nella vita reale. Perciò non crediate che adesso io voglia farvi delle proposte su come il movimento operaio moderno o qualcos’altro in realtà venga trainato solo dalla forza motrice dei pensieri; al contrario, voglio dire che i pensieri che vengono alla luce (e non mi riferisco solo alle forze economiche) esprimono appunto in modo sintomatico forze interiori più profonde. In generale, credo che in futuro inizieremo a considerare la storia secondo la sua sintomatologia, non secondo la causalità, come si ama fare oggi.
Però sicuramente adesso bisogna vedere come si esplicano certi pensieri, tutti da considerare sintomi di certi fatti che vi stanno dietro, ecco, come si esplicano questi pensieri sintomatici. Oggi conoscete forme molto radicali di socialismo. Non crediate, come potrebbe più o meno succedere nel subconscio di certe persone che mi fraintendono (forse neanche il signore che è intervenuto lo intendeva così), non crediate che ciò che avviene attualmente (anche se devo considerarlo veramente pesante, come ho detto nella conferenza) a me sembri tanto orribile quanto ad alcune persone delle classi dominanti. Posso già vedere con una certa oggettività le conseguenze del modo di pensare sociale e dell’evoluzione sociale che, per esempio, appaiono oggi. A questo proposito voglio richiamare l’attenzione su una cosa che forse potreste ritenere importante. Vedete, certamente anche Lenin e Trotzki sono socialisti. E chi non si lascia, diciamo, intimorire da ciò che adesso si racconta sull’Europa orientale e non attribuisce tutto ai ‘bloscevichi scellerati’, ma sa che tutto ciò che oggi si ha la tendenza ad attribuire ai socialisti russi in gran parte deve ancora essere messo in conto allo zarismo e a ciò che è preceduto, magari vedrà con una certa obiettività quel che che succede! E chi guardi con obiettività, dovrà innanzitutto dirsi che in un certo senso proprio Lenin è una specie di ultima conseguenza di Marx, anche per il suo modo di considerare se stesso. E Lenin richiama l’attenzione proprio su due cose di Marx. Innanzitutto richiama l’attenzione sul fatto che il movimento sociale moderno deve aspirare a proletarizzare lo Stato stesso con la dittatura del proletariato. Ma la dittatura del proletariato ricorrere allo Stato (devo accennarlo brevemente), solo perché così ne tira le ultime conseguenze. Le ultime conseguenze di ciò che è predisposto in germe nello Stato, le tira la socialdemocrazia: cioè lo Stato si soffoca, si dissolve.
Ora, i più diversi lati d’ombra di questo Stato socialista devono venir fuori. Su questo fatto Lenin per esempio non si fa nessuna illusione. Ed è anche meglio che votarsi alle illusioni, come fanno così tante persone. Ma egli si adopera per dar forma ad uno Stato che porta in sé germi di morte, che si dissolverà. Solo in seguito verrà lo stadio veramente nuovo, nel quale non viene pagato direttamente il lavoro, ma vale il motto: “Ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. E nel momento in cui si afferma questo, “Ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, che non deve essere solo un ideale socialista, ma un ideale del tutto generale, in quel momento Lenin, come già Marx, deve fare una strana osservazione, che apre una visione molto più profonda del solito. Egli fa quest’osservazione: “Naturalmente, questo ordinamento sociale, che può instaurarsi solo facendo in modo che ognuno vi venga inserito secondo i suoi bisogni e le sue facoltà, questo organismo sociale non lo si può costituire con gli uomini di oggi; per costituirlo è necessaria una razza umana assolutamente nuova, che deve ancora nascere”.
Ecco, vedete, chi non vuole aspettare e non può aspettare una nuova ‘razza umana’, perché altrimenti le condizioni potrebbero favorire il sopraggiungere di quel momento in cui sarebbe meglio decidersi per il suicidio collettivo di cui ho parlato, chi non vuole e non può aspettare volgerà i suoi pensieri alla vita contemporanea e a partire da questa vita contemporanea cercherà di farsi un’idea sugli errori che sono stati fatti. E a questo riguardo credo che, quando ho sottolineato la domanda: “Lo Stato che cosa dovrebbe fare e che cosa dovrebbe non fare?” credo che i miei processi di pensiero, per quanto brevi e abbozzati, abbiano già evidenziato che è stata proprio la mescolanza della vita economica con lo Stato, la mescolanza della vita spirituale con lo Stato, ad arrecare tanti danni all’ordinamento sociale – ho cercato di accennarlo; gli esempi che ho portato potrebbero essere centuplicati.
Non è del tutto ovvio che bisogna riflettere su come rimediare a questi danni? Si può rimediare smettendo di mescolare tutto e tornado indietro proprio da lì.
Naturalmente potreste definirlo ingenuo, ma credo che dalla mia conferenza di oggi si dovesse dedurre quanto in profondità, in realtà, ciò che ho spiegato vada a toccare proprio i retroscena della vita moderna. Quanto ciò sia vero, deve certamente essere lasciato al giudizio di ogni singolo. Di fatto, i pensieri attualmente realizzati e riconosciuti non sono pensieri nuovi; e con queste idee non si costruirà niente di nuovo.
L’idea della triarticolazione l’ho presentata, soprattutto nel difficile periodo della guerra, ad alcune persone che sarebbero state in condizione di realizzarla. In alcuni ambienti è anche già stata capita. Solo che oggi non ci sarebbe nessun ponte che porti dalla comprensione con la testa alla volontà piena di coraggio, alla volontà di fare qualcosa. Questo ponte non è stato gettato.
Proprio in questi giorni ho fatto una strana esperienza, che forse potrebbe richiamare la vostra attenzione su quanto ciò che ho detto sia profondamente radicato nella vita reale, e non è una specie di eliminazione, ma anzi è proprio un accogliere o ancor meglio un portare avanti il pensiero socialista: ho parlato (il che oggi non è proprio facile) davanti ad una assemblea di operai che è stata semplicemente richiamata dalla strada. Lì (come mi è successo spesso anche durante la mia attività a Berlino) proprio i capi socialisti si sono scagliati in molti modi contro ciò che dicevo. E dopo che mi erano state fatte molte obiezioni, si fece avanti una russa, che (sto solo raccontando!) che fra l’altro disse: “Oggi forse abbiamo ascoltato qualcosa contro la quale si potrebbero anche muovere delle obiezioni, ma oggi sarebbe impossibile attenersi solo ai vecchi pensieri o anche ai vecchi pensieri socialisti, è invece necessario avanzare verso pensieri nuovi.”
Se non ci dedichiamo veramente a pensieri nuovi, non arriveremo a nessun reale, sostanziale restauro della casa, ma solo a nuove porte ecc., che tuttavia non potranno essere di nessuna utilità se viene giù tutto. Perciò in quel periodo difficile ho detto a qualcuno che alcune disgrazie successe nel corso dell’ultimo anno si sarebbero potute evitare se molte persone avessero pensato come quella russa di cui vi ho detto. Sono convinto che se allora i negoziatori dell’Europa centrale avessero fatto dei pensieri che sto presentando qui (ad almeno uno di loro erano loro ben noti) il contenuto della politica estera, il contenuto della pace di Brest-Litowsk, lo si sarebbe capito. Se questi pensieri fossero stati dispiegati verso l’esterno, sarebbero stati capiti.
Naturalmente, una conferenza non basta per rendere comprensibili cose del genere in tutti i dettagli; però così si ha il sentimento che al presente nell’anima umana dovrebbe vivere la vita vera, così come semplicemente si è radicata nella realtà. Non mi ritengo affatto così intelligente da sapere meglio di altri che cosa deve succedere nei dettagli!
Perciò, poiché non sono un uomo di programmi, poiché non do programmi e utopie, ma sono uno che vuole ottenere che la realtà venga compresa come realtà, non mi interessa che tutti i miei stimoli vengano eseguiti fino ai dettagli. Se si comincerà da qualche parte a lavorare nel senso di quel che ho detto oggi, del contenuto che ho comunicato potrebbe non restare una pietra sull’altra; forse ne verrà fuori qualcosa di completamente diverso, però sarà comunque qualcosa di giustificato davanti alla vita reale.
Quando si hanno dei programmi, siano essi socialisti o altro, si starà sempre attenti a che il dettaglio che è stato pensato venga realizzato in modo programmatico; qui si tratta di afferrare la realtà in un punto. Poi ciò che ne viene fuori può anche diventare una cosa diversa! E così ciò che ho detto è solo apparentemente incomprensibile, perché la cosa non va presa come gli altri programmi. Si può dire: oggi è facile non solo introdurre un programma con un paio di pensieri, ma perfino dimostrarlo. Invece è difficile appellarsi alle anime umane, e appellarsi come l’ho voluto fare io, soprattutto rimandare queste anime a se stesse, dar loro degli stimoli. Allora forse esse penseranno qualcosa di completamente diverso. Però sostanzialmente al giorno d’oggi la cosa più necessaria è che l’uomo sappia che bisogna partire da una realtà, poi il resto verrà ben fuori.
Perciò non serve affatto che si disprezzi qualcosa, come vogliono fare i riformisti agrari. In un colloquio che ebbi una volta molti anni fa a Berlino con Damaschke, richiamai la sua attenzione sul fatto che sicurissimamente i suoi pensieri avevano moltissima forza motrice, ma che non potevano intervenire pienamente nella vita reale, né capirla energicamente, perché il terreno non è elastico. Non lo è; e perciò, gli dissi, non è possibile tradurli direttamente in realtà.
Ora, non se ne viene a capo in nessun altro modo, che tenendo conto proprio della tendenza dell’epoca, che deriva dal fatto che confondendo la vita giuridica, la vita economica e la vita spirituale le persone sono arrivate in un vicolo cieco. Allora risulta qualcosa che non è affatto tanto difficile da dimostrare, cioè che adesso non si deve più confonderle, ma che bisogna imboccare la via del ritorno!
Ciò che ho detto vuole portare avanti i pensieri su come in realtà si debba socializzare, su come ci si possa mettere in condizione di far sì che non sia più lecito impiegare il lavoro di un uomo per il potere di un altro. E come ho già detto: per quanto imperfetto questo debba restare, perché non lo si può trattare esaurientemente in una conferenza, tuttavia penso che oggi sia necessario, con un po’ di buona volontà, iniziare a fare le cose; perché i fatti parlano chiaro! E perfino riguardo a ciò che in ambito socialista non potrebbe affatto sembrare diverso da quattro anni fa, oggi i fatti parlano troppo forte. Prossimamente spiegherò tutto questo in un opuscolo in modo completo e al tempo stesso in tutti i dettagli, perché lo ritengo estremamente necessario per il presente, e lì dimostrerò nei dettagli ciò che adesso ho veramente fatto solo per accenni.
Credo che oggi non si debba perdere di vista una cosa. Ieri qui ho fatto una strana esperienza. Quando ero un ragazzino, nei miei libri di religione studiavo sempre così: studiavo che si deve capire bene che o Cristo doveva essere un folle o un ipocrita, o altrimenti doveva essere quel che diceva di essere. E in questi libri di religione c’era scritto: “E poiché non lo si può ritenere né un folle né un ipocrita, dev’essere il Figlio del Dio vivente”. Ieri, qui a Berna, l’ho sentito ripetere anche come soluzione al problema sociale! L’ho letto più di cinquant’anni fa già nei miei libri di scuola, oggi lo sento ripetere: come la soluzione giusta al problema sociale. Fra il momento in cui lo leggevo nei miei libri di religione a scuola e questa ripetizione quasi letterale che si sentiva continuamente ripetere in modo letteralmente identico nel periodo difficile, fra quei due momenti però c’è l’esperienza che l’umanità dovrebbe aver fatto con la grande catastrofe che abbiamo vissuto. Da questa grande catastrofe si dovrebbe imparare qualcosa! Prima di tutto, credo, si dovrebbe aver imparato ad essere più volonterosi riguardo alla comprensione di pensieri che forse oggi sono presentati in modo un po’ abbozzato, ma che forse per il modo in cui richiamano l’attenzione sulle cose, mostrano di fare almeno il tentativo di immergersi nei retroscena delle cose.
Secondo intervento: (barone von Wrangelt): vede nella triarticolazione dell’organismo sociale proposta dal dottor Steiner la soluzione giusta. Come il pensiero si possa realizzare gli sembra essere un’altra questione. L’errore fondamentale del socialismo starebbe nel fatto che esso porta ad una sopravvalutazione dello Stato.
Terzo e quarto intervento: in sostanza obiettano che la realizzazione dell’idea della triarticolazione complicherebbe inutilmente la situazione, il che sarebbe contro questa soluzione. La triarticolazione porterebbe ad una frattura, mentre la vita dell’uomo deve costituire un’unità.
Rudolf Steiner: Ora, credo di dover forse dire brevissimamente ancora qualcosa. Posso capire benissimo che cosa vuole l’egregio signore che è intervenuto; ma ho il sentimento che egli stesso non si capisca benissimo! Intendo dire che dovrebbe valutare l’intera situazione in cui ci troviamo da punti di vista un po’ più ampi. Noi esseri umani veramente non abbiamo solo il compito di renderci la vita facile. Ci sono anche delle altre cose nella vita, oltre a renderci la vita facile! E credo che una gran parte dei danni di cui oggi dobbiamo patire dipenda proprio dal fatto che una grande parte dell’umanità punti a rendersi la vita facile, appunto a modo suo. Ma la cosa importante mi sembra essere un’altra.
Vedete, non vi molesterei con una qualche trovata sulla triarticolazione, se queste tre parti non fossero predisposte nella realtà dell’organismo sociale. Il fatto che questa triarticolazione voglia realizzarsi è una cosa che non dipende da noi, che noi non possiamo cambiare, che si fa da sola. Veramente in questo periodo difficile, devo tornarci sopra ancora una volta, ho avuto occasione di parlare con qualcuno che credevo che dovesse fare qualcosa da uno di quei posti che oggi sono molto autorevoli (è successo due anni fa, ci sarebbe ancora stata la possibilità di fare qualcosa) e gli dissi: “Vede, quello che sto dicendo non è una cosa semplice. È nata da un’osservazione, durata decenni, di ciò che si realizzerà in tutta Europa nel corso dei prossimi dieci, venti, trent’anni. Soprattutto osservando il corso degli eventi (e non si può affatto arrivare a capire la triarticolazione sociale, se non riconoscendo, da tutto il presente, anche le possibilità evolutive per il futuro), si vede che, che noi lo vogliamo o no, questa triarticolazione si compie. In epoche passate risultava istintivamente; in epoca recente si è creata sempre più una confusione, una fusione delle tre parti. Adesso queste tre parti vogliono tornare a separarsi nel modo che loro corrisponde, vogliono raggiungere la loro autonomia”. E glielo dissi con queste drastiche parole: Vede, chi adesso è al timone potrebbe ancora ragionevolmente fare qualcosa in questa direzione; gli uomini hanno la scelta (anche Goethe, in merito alla rivoluzione, già disse: “o evoluzione o rivoluzione”) hanno la scelta se farlo adesso, ragionevolmente, o se vivere in futuro rivoluzioni e cataclismi. Non vivranno dei cataclismi solo coloro che sono stati al timone finora, i cataclismi li vivranno anche coloro che vogliono solo attenersi saldamente ai dogmi del socialismo. Si tratta del fatto che questa triarticolazione dell’organismo sociale si compie da sé. E potete anche vedere che in certe condizioni straordinarie ciò che è naturale si manifesta sempre in certe unilateralità dell’evoluzione; queste tre parti vogliono sempre più diventare autonome. E diventano sempre più autonome in una maniera innaturale, se non si dà loro la loro naturale autonomia, se le si confonde, se le si butta insieme; si sviluppano in un modo da frenare l’umanità. Il potere spirituale, l’organizzazione spirituale, sia come Stato ecclesiastico o come Chiesa statale o che altro, si rende autonomo, e anche se non può abbracciare la totalità della vita spirituale, tuttavia cerca di acchiappare tutto quello che può. All’altra, alla vita giuridica, ci pensa lo Stato, mettendo a servizio dello Stato ciò che cercherà a sua volta di rendersi autonomo. Ciò che nella vita politica si vuole realizzare in modo innaturale è tutto quello che oggi è il militarismo, tanto malvisto. Infatti vedete, su questo militarismo e sul suo rapporto unilaterale con la vita statale, proprio durante la guerra sono state espresse delle opinioni sane. Ma se si va a fondo di queste opinioni con sana comprensione umana, allora si nota anche che il militarismo non è altro che la realizzazione unilaterale di ciò cui non si vuole dare la sua naturale autonomia: a sua volta della vita politica. E Clausewitz disse: “La guerra è la prosecuzione della politica con mezzi diversi”; in Clausewitz questo era in un certo contesto; si potevano ancora accettare queste cose, non come negli ultimi anni, in cui si sono sentite dire molte di queste stupidaggini. Si può anche dire: “La controversia matrimoniale e la separazione sono la prosecuzione del matrimonio con mezzi diversi!” Di simili stupidaggini negli ultimi anni se ne sono dette parecchie; qui si getta appunto tutto alla rinfusa. Ma, se si vogliono sviluppare vedute utili nella vita, che poi passino anche nelle istituzioni reali, tutto dipende dal fatto che si vedano in modo sano queste condizioni. E così queste cose vogliono veramente rendersi autonome, svilupparsi in modo autonomo. Recentemente l’organismo economico ha inondato tutta la vita pubblica in un modo così massiccio, che già oggi molti non vedono più assolutamente nient’altro che un organismo economico. E allora in tutto il resto che può esserci essi vedono solo una gestione dell’organismo economico.
Questo è ciò che vi può portare a trovare la prova. Ma innanzitutto, se non sono riuscito a far altro che a stimolare qualcuno, per me questo è già del tutto sufficiente. Non voglio nulla di più! Perché non credo affatto che si possa dire una cosa giusta su ciò che deve succedere socialmente. Tuttavia vorrei aggiungere ancora quanto segue: sapete che al presente ci sono due bolscevichi: uno è Lenin, l’altro è Trotzki. Ne conosco un terzo, che però non è più vivo, al quale pensano pochissime persone quando parlano dei bolscevichi, ed è Johann Gottlieb Fichte! Leggete il suo Lo Stato commerciale chiuso, e da un punto di vista teorico, avete esattamente le stesse cose che potete leggere in Lenin e Trotzki! Perché? Perché Fichte intesse un sistema statale a partire dalla sua stessa anima! Dalle stesse forze con le quali si possono raggiungere le vette più alte nella filosofia, egli sviluppa un sistema statale, un sistema politico, in particolare un sistema sociale. Perché è successo questo? Perché in generale da un singolo individuo non si può affatto ricavare un’opinione su ciò che è socialmente utile! Lo si può trovare solo da un uomo all’altro. Come un uomo che vive da solo su un’isola, non può sviluppare il linguaggio, perché il linguaggio può svilupparsi solo come fenomeno sociale, solo nella vera convivenza fra gli uomini, così ciò che è generalmente sociale non si può ricavare dall’immaginazione di un singolo individuo! Non si può redigere un programma a partire da se stessi. Ma si può riflettere su quale sia l’ordinamento sociale in cui si debbano inserire le persone affinché si rapportino l’una con l’altra in modo tanto naturale, da trovare da sé quello che è il giusto ordinamento sociale.
La questione sociale non sparirà a suon di ordini del giorno! Essa esiste e in futuro dovrà essere risolta sempre più. Ma il compito davanti al quale ci troviamo è di rispondere alla domanda: “Come si dovrebbero rapportare gli uomini nell’organismo sociale triarticolato?” Allora troverete sempre più o meno la soluzione. Nell’organismo sociale gli uomini devono mettersi in collegamento fra loro in modo che le soluzioni emergano dalla loro convivenza. Svolgere questa attività di preparazione è proprio quello che è il compito di un vero pensiero sociale, quel lavoro preparatorio che mostra con che cosa gli uomini, nella vita sociale reale, possano risolvere le questioni sociali.
Ho già detto che non credo che potrei essere così intelligente da redigere un programma sociale. Ma ho richiamato l’attenzione sul fatto che solo se le persone vivono in questa triarticolazione naturale e se lasciano veramente venire al mondo le istituzioni che in questa tripartizione naturale corrispondono ai loro impulsi, l’ordine sociale nascerà grazie alle persone, grazie a questa collaborazione fra persone adeguata all’organismo sociale sano! Qui si può collaborare! Non lo si può fare come dicono i marxisti moderni: “Prima facciamo un grande patatrac, poi viene la dittatura del proletariato, poi verrà ben fuori la cosa giusta.” No, come minimo è necessario che venga svolto questo lavoro di preparazione, chiedendosi: Gli uomini come devono stare nell’organismo sociale in modo che con la loro cooperazione succeda ciò che appunto i fatti che parlano veramente forte oggi ci richiedono?
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