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Una visione d'insieme



6. Le associazioni economiche

6.3 Lavoro e reddito di cittadinanza (II parte)
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Prosegue la discussione dei coltivatori, riuniti in una baracca sugli Altopiani, impossibilitati a lavorare a causa di una giornata particolarmente piovosa.

«Per riprendere il tema del bhikkhu, ovvero del monaco buddista che come solo "lavoro" si dedica alla meditazione, direi che in questo caso dobbiamo parlare della donazione come processo economico: se c'è comprensione per l'attività del bhikkhu, questi sarà certo di poter vivere di essa... Ma credo che la cosa sia ancora più evidente per chi vuole operare nel mondo dell'arte» dice Fabian.
«Ovvero?» chiede Kasimir.
«Spesso chi sostiene il reddito di base adduce la motivazione che attraverso di esso chi ha dei talenti artistici avrebbe finalmente la possibilità di esprimerli senza costringere la propria creatività in un lavoro per il quale non ha alcun interesse - risponde Fabian. - C'è anche da dire che chi lavora tre o quattro ore al giorno ha anche tempo per coltivare tutti gli interessi artistici che vuole, ma l'essenziale a mio avviso sta ancora una volta nella libera comprensione, in questo caso ovviamente per l'opera d'arte. Perché in una società fondata sulla Tripartizione sociale, chi volesse anche vivere della propria produzione artistica e non considerarla solo come un di più accanto ad una qualsiasi professione svolta, dovrà ricavare il proprio sostentamento da chi ritiene che la sua opera abbia un effettivo valore. Se questo non gli riesce, dovrà continuare a svolgere la sua professione e coltivare le sue passioni artistiche appunto come un hobby».
«D'accordo, ma in questo modo come potrebbero emergere dei veri talenti in una società ottusa e livellata su una produzione artistica di massa come la civiltà attuale? Chi avrebbe comprensione per questi veri talenti?» chiede Kasimir.
«Realizzare una società compiutamente tripartita non è qualcosa che si possa ottenere dall'oggi al domani - risponde Fabian. - Man mano che si libererà la sfera della cultura, ci saranno sempre più persone che avranno 'fame' di nuovi talenti, ai quali non mancheranno di far avere il loro sostegno con il denaro di dono che avranno a disposizione. Infine, c'è un altro aspetto per nulla secondario: se si garantisce un reddito di base ad un artista, e questo produce le sue opere appunto solo per il fatto che ne ha la possibilità, ebbene io non credo si tratti di un passo in avanti. Di fatto, questa rappresenterebbe una violazione della Tripartizione, perché in sostanza la produzione artistica non sarebbe che un riflesso di una ingerenza economica o statale nella sfera della cultura, a seconda della provenienza del reddito di base; non si reggerebbe sulla libera comprensione umana, ma sarebbe come un corpo estraneo nell'organismo sociale, una imposizione, o anzi una donazione forzata, diciamo meglio».
«Dunque, per riassumere, se voglio fare il bhikkhu ed ho la comprensione degli altri uomini, vivrò di donazioni, se invece non c'è comprensione e non voglio adattarmi a lavorare, che cosa ci sarebbe?» chiede Kasimir.
«La carità, come oggi del resto... Spero adesso sia chiara la differenza tra donazione e carità. So che la cosa può urtare la sensibilità di più di qualcuno, ma in fin dei conti credo sia un non-problema: a mio avviso è irrealistico pensare che una persona che viva totalmente immersa in una società fraterna, di cui può tastare quasi con mano l'equità dei provvedimenti, e che gli richiede l'impegno minimo indispensabile per garantire non solo a lui ma tutti i suoi simili una vita dignitosa, ebbene mi riesce difficile pensare che questo individuo possa sentirsi leso nella sua dignità di uomo per quanto gli viene richiesto... Se così fosse, mi viene da dire che si tratta di una delle situazioni che ho descritto all'inizio, di chi cioè vuole stare fuori del consesso sociale e isolarsi. Ma siamo al limite della patologia sociale!».
«Allora però non capisco il secondo punto che hai descritto come fondamentale per una società tripartita: la separazione del concetto di lavoro da quello di reddito; dove si può ritrovare questo principio nel disegno sociale che hai descritto?» ribatte Kasimir.
«Credo che in merito ci sia una incomprensione di fondo. Sempre, non appena viene enunciato il principio della separazione tra reddito e lavoro, ci si prefigura la cosa appunto solo nei termini di un reddito di base o di cittadinanza. Proviamo a vedere la cosa in un modo diverso. In un organismo sociale tripartito, gli uomini godono dei benefìci di una vita culturale libera e indipendente. Le scuole che frequentano da giovani non hanno come scopo la formazione di individui adatti esclusivamente alla vita statale ed economica, ma cercano di far emergere i loro talenti e potenzialità. Con questi talenti e potenzialità i giovani si affacciano alla vita adulta e intraprendono una professione piuttosto che l'altra, spinti unicamente da un bisogno interiore e dalle facoltà che hanno messo a frutto. Svolgono quindi un lavoro, ma per questo non vengono retribuiti, anche se in apparenza può sembrare così. La loro retribuzione è fissata innanzitutto dalla sfera giuridica con le opportune integrazioni salariali di cui abbiamo già parlato... Di certo non dipende dalla sfera economica, nel senso che questa non può sindacare su quanto un uomo deve ricevere per il sostentamento suo e della sua famiglia. Se la legge ha previsto un certo salario, questo gli deve essere dato. Attraverso il lavoro umano vengono prodotti beni e servizi, una parte del cui controvalore viene corrisposto al lavoratore. Le associazioni economiche fanno in modo di attribuire a ciascun prodotto un prezzo tale da mantenere in equilibrio l'intera sfera economica. Se si produce una qualsiasi perturbazione nei processi economici, come mi avete detto di aver descritto prima del mio arrivo, il correttivo non verrà mai a scapito di quanto fissato dalla legge. Si interverrà sul numero dei lavoratori o su altri parametri per riequilibrare i processi economici. Al centro di tutto c'è l'uomo, e l'economia gli gira intorno. Svolge un lavoro ma non viene pagato per questo, la determinazione del suo salario è una questione che viene risolta nell'ambito giuridico. Egli vive dei proventi delle merci, merci da ciascuno prodotte. Il denaro sano, infatti, è un assegno in conto merci, come abbiamo detto poc'anzi».
«Non capisco ancora - osserva Lorenzo - anche oggi in fin dei conti il lavoratore viene pagato indirettamente attraverso i proventi delle merci».
«Sì, ma oggi il salario di un lavoratore è un costo come tutti gli altri, come le materie prime, come l'energia elettrica ecc. Prima di tutto, cioè, viene il mercato - risponde Fabian - i beni e i servizi prodotti spuntano un prezzo che consente di coprire tutti i costi, compreso il salario del lavoratore, ma se il prezzo cala, o il prodotto non va, il lavoratore prima o poi ne va di mezzo, perché è un "costo" come gli altri. Diversamente, in una società tripartita prima di tutto viene l'uomo, che deve avere il necessario per il proprio sostentamento, e la definizione di quanto è necessario per condurre una vita dignitosa è stabilito dalla legge al di fuori del mercato. Le associazioni economiche servono proprio a far sì che ciascun prodotto, dallo spillo ai pantaloni fino alle patate e ai fagioli di Martin, tutto abbia un prezzo tale per cui chi ne ha bisogno possa procurarselo. Se ci sono delle perturbazioni nei prezzi, si interviene in modo da riequilibrare il mercato, modificando i processi produttivi, richiamando lavoratori da una corporazione ad un'altra, ma mai mettendo in discussione quanto previsto dalla legge. Forse l'ho descritto male, ma in tutto questo non c'è una relazione diretta tra lavoro e salario, mi pare».
«Il salario è fissato in un ambito diverso da quello economico, quest'ultimo si adegua ed escogita le soluzioni più opportune per garantire prezzi giusti ed equi attraverso i quali tutti possono vivere decorosamente» sintetizza Enrico.

Fabian smette di parlare per versarsi ancora un po' di tè. La pioggia non batte più con la forza di prima sulle finestre.

«Sono temi complicati, in effetti - commenta Bauer - non è facile avere discernimento su queste cose».
«Ecco, a proposito di discernimento, io ancora non ho capito una cosa... - osserva Kasimir. - Prendiamo il caso del mio amico di cui ho raccontato in precedenza, che usufruisce di un reddito di base. Da quanto mi dici tu, Fabian, se osserviamo per un attimo la sua situazione, questa potrebbe essere il risultato tanto di una economia associativa come tu l'hai descritta, quanto di una società che abbia realizzato il reddito di cittadinanza. In entrambi i casi la maggior parte delle persone svolgerebbe comunque un lavoro, anche se solo per poche ore al giorno, ammettiamo pure tre o quattro, come hai detto tu, usufruendo inoltre di quando in quando di periodi più o meno lunghi di riposo».
«Certamente» annuisce Fabian.
«Allora non capisco - ribatte Kasimir - per quale motivo reddito di base ed economia associativa debbano essere considerati tanto diversi, se poi negli effetti pratici di fatto coincidono quasi del tutto. Se mi trovo in uno dei periodi di riposo di cui abbiamo discusso, è tanto diverso se ricevo 1.000 euro sotto forma di un reddito di base piuttosto che se li ricevo da una qualche associazione economica o dalla azienda per cui lavoro? Davvero non vedo questa presunta differenza sostanziale tra i due!».
«Capisco cosa vuoi dire, Kasimir - risponde Fabian - tuttavia spesso certe equivalenze sono tali solo in apparenza: ad esempio affermare la necessità di amare il proprio prossimo, suona in modo ben diverso in bocca ad un uomo qualsiasi rispetto a chi ha meditato per tutta la vita, come nel caso del bhikkhu di prima. Ho sentito dire diverse volte che nel futuro la scienza e la tecnica saranno talmente progredite che per gli uomini non ci sarà più bisogno di lavorare, faranno tutto le macchine. Se si guarda alle statistiche di quante tonnellate di acciaio producono oggi cento operai, rispetto alla quantità prodotta dallo stesso numero di operai un secolo fa, non si può non rimanere impressionati dalle cifre. La strada pare segnata, nel futuro l'uomo potrebbe venir liberato dalla scienza e dalla tecnica, e tutti potrebbero usufruire di un reddito di base ‘solo' che i ricavi vengano opportunamente redistribuiti. Io non ne sono del tutto convinto, anche se qualcuno comunque dovrebbe lavorare. Proviamo a fare un esperimento ideale, supponiamo che gli uomini non debbano proprio più lavorare, lo faranno per loro gli Umpa-Lumpa!».
«E chi sono? Un'altra specie di bhikkhu?» chiede Martin.
Fra le risate generali, Fabian, ridendo pure lui, cerca di spiegare: «Ma no, Martin, si tratta di un popolo immaginario frutto della fantasia dello scrittore Roald Dahl. Nella trasposizione cinematografica di uno dei suoi libri, Willi Wonka e la fabbrica di cioccolato, si vedono questi Umpa-Lumpa, dei nani praticamente tutti uguali, che lavorano per Mr. Wonka, e che, beninteso, sono felicissimi di lavorare per lui, non si sentono minimamente sfruttati. Ora, supponiamo che gli Umpa-Lumpa eseguano tutti i lavori che oggi l'uomo è chiamato a svolgere, liberandolo completamente dalla necessità del lavoro. Tutti i ricavi della produzione verrebbero dati integralmente agli uomini, ovviamente perfettamente distribuiti, perché gli Umpa-Lumpa sono onestissimi! Ebbene siamo certi che questa prospettiva sia davvero equivalente a quella descritta nell'ambito dell'economia associativa? Possiamo forse dire che l'ideale della fraternità, per quanto ne sappiamo e soprattutto per quanto abbiamo realizzato qui su Kepler 2b, ha la sua vera origine nella redistribuzione, per quanto equa essa sia, del denaro? Quest'ultimo è solo un effetto, la fraternità abbiamo iniziato a percepirla qui quando ancora non c'era una moneta ma c'era già la fonte autentica della fraternità: la divisione del lavoro! La vera sorgente della fraternità è la divisione del lavoro, la distribuzione poi delle risorse è altrettanto fondamentale, ma il lavorare per gli altri è il cardine di tutto! Per questo chi ha dato i princìpi della Tripartizione ha insistito sul fatto che in realtà un uomo ottiene il proprio reddito non solo per mangiare e bere, o per soddisfare altri bisogni fisici o psichici, ma anche per lavorare per gli altri uomini! Se salto questo passaggio e ottengo il mio reddito senza aver lavorato per gli altri, non riuscir& ograve; a sviluppare compiutamente i necessari sentimenti sociali che possono sorgere da una chiara consapevolezza della formazione del mio reddito e dei motivi per cui lo percepisco. Il nostro tempo richiede agli uomini, attraverso la divisione del lavoro, di appropriarsi di un adeguato sentire sociale. A tutti gli effetti si tratta di una vera e propria tappa evolutiva per l'umanità contemporanea. Togliere o anche solo attutire questo passaggio, potrebbe essere oltremodo pericoloso, perché sappiamo come l'uomo contemporaneo, virtualmente "libero" e poggiante sulla propria individualità, sia in realtà un essere fondamentalmente asociale. Curiosamente questo lo possiamo vedere, a mio avviso, nel mondo del cinema, in certa produzione cinematografica...».
Allo sguardo stupito dei suoi amici, Fabian prosegue: «Il mondo del cinema a volte, e in una certa qual misura, può darci una prefigurazione, una sorta di anticipazione di questa evoluzione antisociale dell'uomo. Prendete certi film, soprattutto di produzione americana o comunque anglosassone, tipo Mad Max e filoni analoghi: dietro la finzione cinematografica, che tipo umano emerge? Quello che si dice: "Io faccio il mio, non do fastidio a nessuno, ma nessuno deve dare fastidio a me, altrimenti gliela faccio pagare cara: io sono la mia legge!". Non c'è alcuna vera moralità, nessun interesse per gli altri, solo chiusura in se stessi. Invece, sono fondamentali i sentimenti che nascono dalla consapevolezza del ricevere il proprio reddito perché si è lavorato per gli altri attraverso le associazioni, rispetto a quelli che si possono sviluppare perché lo si è ricevuto dallo Stato o da altro ente ma senza una chiara coscienze della sua motivazione. Nel primo caso, mi renderò perfettamente conto che reddito, riposi e quant'altro mi vengono di fatto donati dal lavoro degli altri uomini; nel secondo, sarò portato a vivere in modo socialmente passivo questo fatto, penserò molto più facilmente che mi spetta, che mi sia dovuto e basta…».

Fabian smette di parlare, per un po' rimangono tutti in silenzio, pensosi. D'un tratto si accorgono che da tempo non piove più, anzi il cielo si è rischiarato e dalla finestra un bella luce inizia a penetrare nella mensa.

«Mmh, mi sa che ormai il peggio è passato, direi che possiamo tornare al lavoro nei campi. Che ne pensate?» dice Bauer dopo aver aperto la porta della mensa e guardandosi attorno.
«Di già? Non sarebbe meglio aspettare ancora un po' che si asciughi la terra?» chiede Martin, mentre già i suoi amici iniziano ad avviarsi.
«Ohé, Martin, non ti sarai mica messo in aspettativa, vero?» gli dice Bauer fra le risate generali...


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6.2 Un ponte tra produzione e consumo (I parte)7. La proprietà privata
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