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Attraverso il lavoro e il consumo oggi le persone sulla terra sono tenute insieme l’una con l’altra da legami invisibili. L’esistenza dell’individuo dipende da ciò che si crea nello spazio tra una persona e l’altra. Tuttavia oggi non abbiamo coscienza di questi intervalli che prendono forma senza che lo vogliamo. Cos’è allora che unisce gli individui nell’economia globale? E come possiamo svegliarci da questa condizione e dare una direzione all’intervallo dall’interno secondo il nostro volere, invece di continuare a “incorniciarlo” dall’esterno inutilmente? Contro l’ideologia imperante della “mano invisibile” “disciplinata” dallo Stato, questo testo indica una soluzione pratica che consenta all’uomo di rendere visibile “l’invisibile” e creare un’economia a partire dalla sua fonte originaria. Conferenza del 17.02.2013 in occasione del convegno di Febbraio della Sezione dei Giovani del Goetheanum. Signore e Signori, A dire il vero, però, questa domanda mi interessa da molto più tempo, per la precisione da quando ho ultimato i miei studi alla scuola Waldorf di Heilbronn. Finita la scuola, era come fossi andato sbattere contro a un muro. Perché si trattava di uscire e orientarmi nel mondo per capire cosa volevo fare della mia vita. Questa capacità di orientamento, tuttavia, presupponeva che io trovassi una risposta a due domande di vitale importanza. Una delle quali era: cosa vuole il mondo da me? Qual è il posto che mi consente di agire per il bene per la società? Quella che si potrebbe forse chiamare “domanda economica”. L’altra domanda invece era: cosa voglio fare per me stesso in questa vita? E come faccio a trovare le persone di cui ho bisogno per farlo? Quella che potrebbe chiamarsi “domanda della formazione”. Dopodiché arrivò un’amara delusione. A nessuna delle domande trovavo una risposta. Mi trovavo di fronte a un’economia dove la regola sembrava essere l’incapacità di dire dove fossero impiegate realmente le forze in un dato momento. La mancanza di occhio critico riguardo alla produzione era addirittura eretta a legge suprema. Riconobbi per così dire il simbolo del sentimento che mi colse nel riflettere sul senso del lavoro nei palazzi di vetro delle banche. Non è forse vero che quando si guarda la facciata di vetro di una banca non si riesce a vedere cosa c’è all’interno? E non si riesce mai a sapere cosa si ha di fronte, mentre si vede se stessi e nient’altro che la propria immagine riflessa. E questo diventò per me il simbolo dell’economia. Volevo entrare nel mondo del lavoro, ma non mi si lasciava entrare e mi si rimandava a me stesso. Non riuscivo a scoprire dove potevo rendermi utile. Al contrario mi era permesso dire cosa volevo fare, cosa volevo per me, che tipo di aspettative salariali avessi. Dovevo vendermi bene. E la cosa non mi interessava neanche lontanamente. Ero interessato al valore del lavoro in sé. Ma questo valore mi appariva nascosto, sempre e comunque. In pratica nel trovare una risposta a queste mie domande di vitale importanza fallii quando, in un certo qual modo, andai a sbattere contro la facciata della vita economica. E lo stesso è successo con l’altra domanda, quella sulla formazione. D’un tratto mi sono ritrovato dentro a un edificio universitario davanti a un professore e ho constatato di non essere interessato a lui, tanto quanto lui non lo era a me. Ed era anche tutto molto chiaro. Cos’era dunque che ci aveva fatti incontrare? A portarmi lì non era stato il mio interesse per quella persona né per le sue attitudini, ma un sistema di gestione basato sui numeri. Lo stesso sistema che aveva portato quel professore a me. Il che significa che non ci siamo cercati e poteva anche succedere che non ci trovassimo mai. Non c’entravamo nulla l’uno con l’altro. Ci sedevamo faccia a faccia e ci fissavamo. Naturalmente io ero gentile con lui e lui lo era con me. In quella condizione non avrei trovato alcuna risposta sulla direzione che volevo dare al mio progredire, questo compresi, perché per farlo ci voleva un incontro, il contatto con persone aventi la medesima intenzione, seriamente impegnate a cercare loro stesse. “Devo riuscire a incontrare persone che c’entrano con me e con le mie domande esistenziali”, questo sentivo. In sostanza ho fallito anche con la domanda sulla formazione. Ma ho resistito. Per un po’, almeno. Seguivo le lezioni e leggevo i testi obbligatori. Facevo i compiti. Per sopportare la deformazione del mio spirito, ho dovuto comunque ripiegare su un ambito dove il mio spirito avrebbe trovato nutrimento, almeno in apparenza. Allora ho sviluppato una vita privata. Andavo alle feste, nei pub e filosofavo, scrivevo poesie e così via, cose che conoscete. Mi sono diviso in due persone, una che conduceva una vita esteriore e un’altra che si sentiva viva. Oggi non sono dispiaciuto di come è andata la mia adolescenza. Perché a modo mio ho vissuto appieno quello che poi avrei identificato come il tratto caratteristico del nostro tempo. Tutti, chi in un modo e chi in un altro, dovrebbero vivere appieno una cosa simile. Ebbene, come vive una persona? Magari lavora 8, 10 o 12 ore al giorno. Che significa stare dentro a un contesto sociale, ovvero operare se è medico, oppure azionare la leva di una macchina o costruire un tavolo con del legno. È qui che il mondo si prende dall’individuo quello che vuole da lui, è qui che l’operato del singolo si compenetra nell’universo fino a contribuire all’esistenza del tutto. È qui che l’uomo si fa elemento dell’organismo terrestre. Il che significa che per una certa parte del giorno si collega al prossimo. È qui che entra davvero in connessione con l’altro, è qui che diventa parte dell’universo. Eppure è proprio di questo che è inconsapevole! Al giorno d’oggi nessuno sa in che modo il proprio lavoro entri a far parte del processo globale, come il proprio operato si inserisca nel processo del mondo né come là fuori i valori siano in continuo sviluppo e mutamento. L’uomo mette il proprio lavoro nel mondo. Quello che pensa, però, è che a dare senso al lavoro sia la “legge del mercato”. E per fare sì che l’uomo non contribuisca al senso del proprio lavoro, partecipi al processo economico senza un briciolo di consapevolezza e lo digerisca per così dire, riceve un risarcimento: lo “stipendio”. Che è a tutti gli effetti un risarcimento per la seccatura di essere costretto a disattivare la propria consapevolezza proprio quando entra in connessione con il prossimo e quando il proprio agire agisce in modo influente sull’universo. Grazie a tale risarcimento, tuttavia, oltre a lavorare può farsi domande sul senso. Può avere del tempo libero, incontrare gli amici, andare in vacanza, in chiesa o diventare membro della società antroposofica. Il risarcimento per la perdita di consapevolezza, in un certo qual modo, consente all’uomo di mettere anima e vita l’una accanto all’altra. Non può entrare nella vita con l’anima. Così abbiamo da un lato la vita sociale, dove si entra senza anima, insomma un meccanismo; e dall’altro abbiamo l’anima che non ha vita, quindi soltanto un sogno. Da un lato abbiamo il fluire della “vita” senza anima il che vuol dire morte, e dall’altro l’“anima”, che comunque non ha vita ed è solo un prodotto della fantasia. Prendiamo ad esempio la filosofia Demeter. Un agricoltore Demeter ha una concezione della terra radicalmente diversa da quella dell’agricoltore convenzionale. Per l’agricoltore convenzionale la terra è un recipiente pieno di sostanze nutritive che la pianta le toglie. Per l’agricoltore Demeter funziona all‘inverso: la pianta dal cosmo lavora per addentrarsi nella terra. Per l’agricoltore convenzionale la radice è una sorta di pompa, mentre per quello Demeter rappresenta qualcosa di simile a un tessuto nervoso, come le dita di una creatura che entra in contatto con la terra. Per il contadino Demeter questa relazione rappresenta un punto fondamentale e per questo anche il suo modo di considerare la composizione del terreno è completamente diverso. Secondo la sua concezione il terreno non è soltanto un contenitore di sostanze cui le piante devono attingere, ma viceversa deve anche consentire alla pianta di contrapporsi e in tal modo rafforzarsi da sola. E se adesso provaste a confrontare i piantoni di un contadino convenzionale con quelli di uno Demeter, lo vedreste voi stessi. Ciò che appare evidente a tutti gli effetti è che il piantone del contadino convenzionale sviluppa radici simili a pompe, quello del contadino Demeter invece un intreccio ramificato. Ma della Demeter non ci bastano solo gli esperimenti di laboratorio. Il risultato finale cui ambiamo è avere i suoi prodotti anche in tavola e nutrirci di questi alimenti. E per farlo è necessario integrare il contadino Demeter nel processo economico, attualmente su scala mondiale, di modo che il contadino stesso, volente o nolente, sia al tempo stesso parte dell’economia globale fondata sulla divisione del lavoro. E ciò comporta, ad esempio, che non sia più lui a coltivare i piantoni. Va da sé che i contadini Demeter di regola non coltivino i piantoni, ma li prendano da altri e questo perché altrimenti i loro prodotti sarebbero troppo cari e non potrebbero essere acquistati nemmeno dagli antroposofi. E se nessuno potesse acquistarli non avremmo nessuna Demeter. Perciò alle aziende Demeter, quanto meno in genere, i piantoni vengono forniti. Arrivano in dischi di torba. La torba, però, è una sostanza davvero particolare. In effetti, è una sostanza morta. Essa ha una corrispondenza con l’idea della terra quale recipiente vuoto pronto a ricevere i prodotti chimici da instillare nella pianta. Anche per questo nell’agricoltura convenzionale la torba è diventata la base della coltivazione. Allo stato attuale, però, nelle nostre zone le estrazioni di torba hanno portato a esaurirla al punto che non restano più torbiere da prosciugare e bonificare. Per questo la torba arriva da lontano, dall’Est Europa dove queste ultime meraviglie della natura vengono distrutte per consentirci di fare le nostre coltivazioni e, come risultato, mangiare i nostri prodotti Demeter. Mi è capitato di conoscere un ricercatore del gruppo Demeter che per molti anni si è dedicato interamente allo sviluppo del gruppo. Si chiama Uli König e l’ho conosciuto durante un convegno di agricoltura. Quest’uomo ha di fatto speso molti anni di lavoro sposando la causa del progresso del gruppo. Voleva trovare un modo per sostituire la torba con qualcosa più in linea con il pensiero Demeter. Voglio svelarvi cosa è riuscito a fare: è riuscito a persuadere alcuni grossisti ad aggiungere altre sostanze, ricavate ad esempio dai residui di potatura degli alberi e per questo motivo meno problematiche. Un grande risultato. Ma per l’argomento di oggi ci interessa qualcos’altro. Ovvero, in quale problema è incappato Uli König? Il problema è stato che gli agricoltori Demeter utilizzavano una piantatrice per interrare i piantoni, una macchina studiata per la torba. Utilizzando un’altra terra, i piantoni restano incollati alla macchina e non si riesce ad interrarli. La domanda che si è dovuto porre il ricercatore, allora, non è stata quale tipo di terra occorresse per fare bene alle piante o all’uomo, ma piuttosto quale tipo di terra fosse adatta alla macchina. Naturalmente adesso potreste ribattere dicendo che i contadini Demeter dovrebbero rinunciare alla piantatrice. Ma così facendo, le persone saranno costrette a fare ciò che fino ad ora è stato compito della macchina, senza contare che questo comporta il dover retribuire queste persone. Ne seguirà un nuovo rincaro del prodotto Demeter, cosa che non può essere. Ovviamente rinunciando solo alla piantatrice è ancora possibile farcela. E potreste anche obiettare, a ragione, che forse esistono ancora piccole aziende Demeter che coltivano da sole i piantoni. Ma la questione non è tanto che per alcuni la cosa sia fattibile, ma che sia necessario metterne insieme un gran numero. Se considerate il tutto nel suo insieme, la torba, i piantoni, la piantatrice e quant’altro necessario alla crescita del prodotto e volete farlo all’insegna del pensiero Demeter, ne risulterà un prezzo fuori dal mondo. Il che significa, però, che non esistono prodotti Demeter che possano essere effettivamente realizzati. La realizzazione annulla il pensiero Demeter. Il pensiero Demeter non può realizzarsi, perché nel momento in cui ciò avviene, esso cessa di esistere. Non vi sarà mai possibile realizzare il pensiero Demeter senza rispondere alla questione sul come l’uomo comprenda e crei i presupposti dei rapporti di prezzo. C’è da dire però che questi presupposti non si trovano nell’azienda Demeter, bensì nel mondo. Dovete quindi sviluppare un interesse completamente diverso da quello per il prodotto del vostro spirito, se non volete che resti solo qualcosa di meramente astratto. Dovete sviluppare un interesse per tutto quello che non ha nulla a che vedere con il vostro pensiero Demeter nell’immediato. Una cosa è il vostro ideale, un’altra sono le condizioni sociali sulla terra. E per realizzare qualcosa di concreto nella vita, si deve andare in entrambe le direzioni e addentrarsi con lo spirito in tutti e due gli ambiti. Ma gli stessi antroposofi non lo fanno. In altre parole: noi antroposofi non lo facciamo, se mi è concesso generalizzare. Sapete cosa intendo dire. Non lo facciamo, quindi. Cos’è che facciamo allora? Siamo pragmatici, sviluppiamo un pragmatismo antroposofico. E cosa significa questo? Semplicemente che siamo vittime dei processi che ho appena descritto. Ci sottomettiamo facilmente alle disuguaglianze senza opporvi resistenza. Questa è la “prassi” antroposofica. Nel momento in cui entriamo concretamente in connessione con il processo del mondo, entriamo a far parte di un automatismo. Ma non diamo alcuna risposta concreta sul come si possa sostituire questo “meccanismo di mercato” con una pratica consapevole. Non esiste alcuna prassi antroposofica dove esiste un meccanismo di mercato. Per questo, dall’altro lato, siamo costretti ad allontanarci sempre più da quello che il nostro occhio spirituale percepisce. Esso non trova fondamento nella vita reale e per questo il nostro presunto spirito si trasforma in un sogno puro e semplice. E nel mezzo abbiamo poi il compromesso, ovvero l’azienda “antroposofica”. Questa azienda “antroposofica” è sottomessa a tutto quanto insieme a lei costituisce il processo del mondo, o semplicemente all’automatismo, la cosiddetta “legge di mercato”. E dall’altro lato, dalla sfera privata, dal fuori campo, affluisce nell’azienda tutto ciò che di spirituale può esistere in condizioni simili, quel piccolissimo denominatore comune che conferisce all’azienda quella certa aura, una sorta di piacevolezza all’atmosfera lavorativa. Oggi la cosiddetta “Antroposofia” in molti casi non è altro che uno strumento per alleggerire il peso della meccanicità sull’anima, per renderlo più lieve e far perdere all’anima la connessione con la realtà. E infatti l’impressione che si può trarre è quella di una “società antroposofica” odierna in tutto e per tutto al servizio dell’esoterismo. Ma il modo in cui si vive l’esistenza esteriore influisce sullo spirito e modifica anche la condizione interiore del “prestatore di servizio”. E questo potete vederlo voi stessi analizzando con attenzione la società antroposofica. Prendete ad esempio un antroposofo medio, che inizia a riflettere sul mondo a partire da questi presupposti “antroposofici”. Cos’è che pensa? Pensa che la realtà sociale sia una macchina. Il fatto che oggi le macchine lavorino per l’uomo è una benedizione. L’uomo sta dall’altra parte della barricata con i propri sogni. E dato che le macchine lavorano per lui, è libero di fare ciò che gli piace. Da una parte la macchina, dall’altra l’anima. Questo pensa. D‘accordo. Con cosa abbiamo a che fare dunque? Abbiamo a che fare con un “pensiero” che non esiste e che non è altro che la vita esteriore protratta nello spirito. Una mera impressione dei fenomeni esteriori. Del mondo non possiamo più parlare di “condizione”, ma di un’appendice del mondo esteriore a livello mentale. Questo è il reddito di base. Niente altro che l’espressione fisica delle condizioni di vita esteriori. Per questo i sostenitori del reddito di base possono essere ben compresi e si può capire perché ci si nasconde dietro a queste disuguaglianze. Anche in questo caso è come se nel cervello vi fosse una sorta di pompa utile solo a far passare quello che incontra e non piuttosto un ramo attraverso il quale l’uomo, grazie all’immaginazione, può entrare in contatto con i fenomeni della vita. E questa pompa è ciò che la società antroposofica rappresenta oggi nel mondo. In ogni caso è così che il grande pubblico percepisce la voce dell’Antroposofia in riferimento alla vita sociale. Il che equivale a non applicare i principi antroposofici alla vita sociale. Proprio in questo ambito non entra in gioco l’idea di un pensiero che deve rafforzarsi di per sé e avere un fondamento proprio per essere autonomo rispetto alla vita; riguardo alla vita sociale il pensiero è considerato una mera espressione delle condizioni esteriori. E da lì si arriva a un contrasto evidente con Rudolf Steiner, con l’improvvisa esigenza di “superarlo” in qualche modo. Perché l’idea della Tripartizione Sociale influisce radicalmente su chi considera il cervello come una pompa. Questo tipo di persona afferma che quanto voluto da Rudolf Steiner non sia realizzabile e, per questo, poco pratico. Non è realizzabile dunque! Non esiste posto ove regni maggior confusione dello spirito di chi giudica non realizzabile la Tripartizione Sociale. È ovvio che l’idea della Tripartizione Sociale non sia realizzabile. Questo concetto rappresenta addirittura il punto di partenza dell’idea stessa. La Tripartizione Sociale non è realizzabile; l’idea della Tripartizione Sociale è infatti il derivato di una certa visione delle forze che plasmano la realtà esteriore. E pertanto non è affatto applicabile. La sola cosa plausibile è che chi si abbandona a questa idea la pensi in senso radicale fino a che a poco a poco arrivi a percepire qualcosa dalle forze generatrici della vita sociale. L’idea della Tripartizione Sociale, in un certo senso, lo riporta indietro alla visione di quelle forze che l’autore di questa idea aveva davanti al suo occhio spirituale nel momento in cui l’ha creata. Queste forze, però, rappresentano la causa della vita sociale. In tal modo l‘uomo, percependo le cause della vita sociale, data la sua capacità di instaurare una relazione libera e consapevole con esse, invece di esserne egli stesso un effetto, può quindi elevarsi a co-autore della vita sociale, mentre prima poteva solo sottomettersi alle circostanze e agire in maniera meramente “pragmatica”. Vediamo se riesco a spiegarvi la differenza fra i pragmatici e i pratici veri e propri con un esempio preso da tutt’altro ambito del vivere. Come ben sapete nell’uomo si distinguono i processi metabolici, da quelli nervosi e da quelli circolatori. Pare logico ritenere che a nessuno verrebbe in mente di mettere in pratica il metabolismo. Non c’è bisogno di metterlo in pratica: esso esiste già. Ma è consapevole della sua esistenza solo chi osserva la vita da quelle prospettive date dal concetto. A chi non possiede i concetti, il mondo resta precluso. Ma la questione non è mettere in pratica i concetti nella realtà. Si tratta piuttosto di servirsi di essi per esaminarla. Ad esempio si possono esaminare le correlazioni esistenti fra i processi metabolico, nervoso e la circolazione sanguigna in un soggetto sano e in uno malato. Prendiamo allora l’esempio semplicissimo del sangue, la cui circolazione deve essere continua e priva di interruzioni. Per questo si cerca di prevenire il ristagno del sangue. E nell’eventualità in cui ciò si verifichi, può succedere che per riattivare il flusso non sia necessario fare nulla a livello di circolazione del sangue, quanto invece a livello di metabolismo, che so io, modificando l’alimentazione. E così approdiamo alla prassi. Una prassi molto diversa dal concetto, non trovate? Quindi pensare a livello pratico può anche non significare affatto “adottare” una certa idea. E proprio in questo sta l’assurdità di chi accusa la Tripartizione di non potere essere adottata. Questa accusa, infatti, è di per sé espressione di un pensiero non pratico. Pensare in modo non pratico significa voler adottare la propria idea come si può “adottare” un reddito di base! Questo corrisponde alla definizione esatta del pensiero non pratico. Ci si avvicina dunque alla Tripartizione partendo dal presupposto di doverla adottare e, non risultando plausibile, la si ritiene non pratica. In effetti si vive ancora basandosi molto sulle idee, in un realismo idealista [1]. Non potete comprendere Rudolf Steiner partendo dai presupposti del realismo idealista. Perché per Steiner la concretezza non risiede nell’idea, ma nel mondo così come si manifesta in ogni momento ed è lì che si fonda il pensare su un terreno indipendente. L’idea è, in un certo senso, solo quel qualcosa che apre gli occhi, il mezzo per entrare in contatto con le forze esterne che agiscono nel cosmo. L'idea della Tripartizione Sociale va intesa in tal senso. Non è la Tripartizione a dover essere adottata, ma è l’uomo a dover essere edotto di come ogni società umana sia alimentata da tre processi distinti. E l’uomo deve poter conferire alla società il proprio carattere umano e distinguere le cause che hanno portato alla creazione della società, perché solo vedendo la realtà egli può anche tenerne conto nel suo agire. Adesso voglio affrontare un ragionamento che sviscera i processi su cui si fonda la vita sociale. Di seguito non tratterò affatto dell’esattezza del pensiero preso come entità astratta, ma piuttosto della questione se i pensieri ci portino a dire: adesso riesco a comprendere la vita sociale e a contribuire alla sua realizzazione, perché in ciò riconosco una delle radici della vita. Per questa ragione si tratta di pensieri radicali. Vi invito ad addentrarvi per un momento in questa radicalità di pensiero e a non giudicare da subito cosa di essa sia da adottare. Poi potremo discutere alla fine sul cosa debba o non debba essere fatto nello specifico. Con il concetto di “Tripartizione Sociale” si intende quello che nel presente collega noi uomini gli uni agli altri all’interno di una comunità. Con esso si intende quello che nel programma di questo convegno è definito “intervallo”. Questo intervallo non è semplice, bensì triplice. Ciascuno di noi si trova in tre spazi diversi anche adesso, in questo istante, poiché noi uomini siamo in correlazione in tre diversi modi. E in tale correlazione fra di noi vengono a crearsi tre strutture diverse. Possiamo anche dire che ciascuno di noi è membro di tre società diverse e che, pur non sapendolo, partecipa attivamente alla loro creazione. Sta succedendo anche adesso, in questo istante, fra di noi. Proprio come l’essere spirituale “uomo” per esistere concretamente sulla terra passa attraverso tre diversi sistemi organici, ovvero quello nervoso, quello metabolico e quello circolatorio, di per sé diversissimi, in correlazione fra loro pur restando autonomi, similmente questo essere spirituale deve svilupparsi anche attraverso tre diverse forme di relazione per poter esistere nel mondo esteriore. Però, così come non ci rendiamo conto del processo nervoso, metabolico e circolatorio finché non ce ne figuriamo il concetto, non ci rendiamo conto neanche dei processi che costituiscono la nostra realtà sociale, finché non ci figuriamo il concetto della Tripartizione Sociale. Quando parlo dei tre processi della vita sociale mi riferisco alla vita spirituale, alla vita economica e alla vita politica e per i rispettivi ambiti si possono forse usare le definizioni di sfera spirituale, sfera economica e sfera politica. Da essi, anche se non ce ne accorgiamo, creiamo la realtà esteriore, ciò che si dipana di fronte ai nostri occhi sottoforma di società. È ovvio che non potete prendere qualcosa di appartenente alla vita esteriore e identificarlo con una delle tre parti. Non potete dire che la banca è la vita economica. No, la banca è il prodotto della collaborazione fra la vita spirituale, la vita economica e la vita politica. Chi si è occupato della Tripartizione solo a un livello molto superficiale a volte la descrive usando i termini economia, Stato e società civile. Il che ovviamente non ha senso. Economia, Stato e società civile sono, infatti, ciascuna un prodotto delle tre parti. E si tratta di distinguere queste parti l’una dall’altra, distinguendo bene i contorni. E di ritornare ai tre fattori primari sui quali poggia ciò che noi oggi chiamiamo “banca”, “stato” e così via. Per questo adesso voglio che, ciascuno per conto proprio, si raffiguri queste parti, per quanto possibile. Vi invito a porre particolare attenzione alla vita economica, per consentirmi di trasformare questo elemento dell’organismo sociale nel punto centrale della mia indagine. Vorrei tuttavia partire dalla vita spirituale, in modo da riflettere con maggior facilità su un argomento che già conosciamo. Allora passiamo velocemente in rassegna i punti salienti di questo ambito. Cosa sta succedendo in questo istante fra noi qui presenti? Dunque, la prima cosa che salta all’occhio è che io sono seduto qui ed espongo un’idea su un certo modo di vedere le cose. Sto creando qualcosa con le mani e con la bocca. Voi ascoltate e guardate. Quello che per me è un’idea diventa per voi una percezione esteriore. Quello che espongo davanti ai vostri occhi e alle vostre orecchie, voi lo attraversate con il pensiero e giungete a una vostra personalissima idea. Detto così, veramente, è troppo vago. Di fatto ciascuno dei presenti attraversa questa esposizione con il proprio pensiero. Ovvero ognuno mette in relazione al proprio mondo di esperienze quello che ha percepito da me. Però ciascuno di voi ha fatto esperienze diverse nella vita e per questo collega la rappresentazione di oggi ad altre percezioni di cui solo lui dispone. Da questo potete dedurre il perché ognuno di voi in questo momento sta creando un proprio concetto della mia esposizione. In questo momento abbiamo a che fare con un numero di concetti di Tripartizione Sociale pari a quello delle persone in questa stanza. La cosa non funziona affatto nel modo in cui è concepita dal Ministero per l’istruzione. L’istruzione non funziona a partire da una certa idea vagante nello spazio, definita come “verità”, che si espande con uniformità, scende e penetra nelle menti. Funziona esattamente all’inverso: l‘istruzione nasce nel momento in cui una persona si contrappone a un’idea. L’idea che ho in testa io non potrà mai diventare il vostro concetto, ma sarà per voi una percezione che si affianca ad altre percezioni. Molto dipende da quanto a fondo andrete su questo punto. Pensare è qualcosa di diverso dal percepire un’idea. Quello che penso non riuscirà mai a raggiungervi se non sottoforma di percezione. E nel momento in cui collegate questa ad altre percezioni, state pensando a vostra volta. E nel momento in cui alla percezione dell‘idea contrapponete la vostra attività di pensiero, ecco che state creando un concetto. Il concetto quindi è l’unico elemento che vi rende attivi in questo momento. Mentre lo fate, nel contrapporvi alla mia idea, vi state formando. Questa è l’istruzione. Il che significa che i concetti o le idee non vagano intorno nello spazio, ma risiedono in ogni sacrosanta individualità. La domanda che potrebbe sorgere adesso è cosa sia a metterci in relazione l’uno con l’altro a livello spirituale. Lo possiamo fare in modo molto semplice, adesso. Possiamo fare che vi interrogo. E se quello che mi dite corrisponde alla mia idea, ricevete un attestato che autorizza anche a voi a parlare del nostro argomento. Così diventate degli esperti accreditati della Tripartizione. Oppure papi o papesse della Tripartizione. Questo corrisponderebbe al nostro attuale sistema di istruzione. Ciò che collega, ciò che crea una comunità, in questo caso, è il potere. Potere, poi, significa concesso o non concesso. Avere o non avere il permesso. Stiamo parlando di un potere molto esteriore e fisico. E poi si “imparerebbe” sempre qualcosa. Ebbene questo rappresenterebbe un’unità piuttosto artificiosa. Un’unità nella quale il singolo individuo non è inserito, quanto appiattito a favore della creazione dell’unità. Non si avrebbe alcun collegamento, quanto una parvenza di esso, con la soppressione di tutti i contrasti. Cos’è che può davvero unirci gli uni agli gli altri? Ciò che collega, per essere effettivamente tale, deve fare sì che la comunità non si crei a spese dell’individuo e attraverso la sua negazione, ma attraverso la sua valorizzazione. Ciò che collega, in un certo qual modo, non deve essere altro che la libera azione del singolo. Di modo che il singolo superi sé stesso attraverso il proprio libero agire. Allora sì che si avrà un vero collegamento fra gli uomini. È possibile concepire qualcosa di simile? Adesso allontanatevi dal pensiero cui ho appena accennato. Pensate a qualcosa che in qualche modo si ricollega all’autorità dello Stato, lontano dalla vita spirituale. E che non esista alcun organismo di accreditamento a dare una definizione di professore, non un servizio sanitario che dica quale terapia possa essere impiegata, non una legge sull’istruzione, non un Ministero della pubblica istruzione, non un obbligo scolastico, nessuno che dia una definizione di insegnante. Pensate ad esempio che non esista alcuna definizione di insegnante. E poi andate oltre e provate a pensarlo nel radicalismo come l’ha concepito Steiner, evitando di reagire subito con simpatia o antipatia nei confronti di questo pensiero. Provate a pensare: se non esiste definizione che dica cosa sia un insegnante, allora è possibile che non esista nemmeno un finanziamento pubblico agli insegnanti. Provate a pensare che non vi sia alcun finanziamento pubblico agli insegnanti e che quello che oggi dobbiamo versare allo Stato sotto forma di imposta, destinato alla cultura e in tal senso definito, rimanga nelle nostre tasche. Cosa rimane? Rimane il bambino. E il bambino ha bisogno di un adulto per formarsi. Ma non ha bisogno di un adulto qualsiasi, ma di uno in particolare, ovvero qualcuno in grado di fare uscire il talento del bambino e, in tal modo, permettere a quest’ultimo di formarsi. E se vogliamo che questo adulto lo educhi senza essere costretto a fare altro, come possiamo fare? Possiamo farlo soltanto dando uno stipendio a questo adulto per evitare che sia costretto a trovarsi un altro lavoro. Ciò significa che questo adulto è un insegnante solo perché è la vita a mostrarlo come tale. È un insegnante solo perché le persone cui vuole riservare le proprie attitudini, fanno esperienza di queste ultime, riconoscendolo pertanto come insegnante. Provate a pensare che non esista alcun obbligo scolastico. Questo adulto per portare i bambini a scuola non ha altri strumenti se non le proprie attitudini pedagogiche. E i genitori saranno disposti a pagarlo solo se è capace e i bambini crescono bene con lui. Allora otterrete un processo inverso rispetto a quello attuale. Non è la definizione a fare tale un insegnante, ma viceversa quello che la definizione di insegnante rappresenta si evince da una formazione ben riuscita nella realtà. Quindi avrete una vita culturale che si estende nella misura in cui è riconosciuta da coloro che ne hanno fatta esperienza diretta. Poi abbiamo tutti quegli spiriti che per crescere hanno bisogno del giudizio individuale di tutte le persone. Provate a pensarlo come principio esteso a tutto quanto si ricollega alla cultura, alla scienza o all’istruzione. Ad esempio, che non andiate più in un ospedale per farvi curare da chi indossa un camice bianco, ma all’inverso, che il permesso che qualcuno indossi un camice bianco dipenda dal fatto che voi vi facciate curare da lui. Costui ha bisogno della vostra stima per ricevere lo stipendio di medico. Il medico avrà bisogno non del servizio sanitario, non del fisco, ma del vostro contributo volontario. In questo modo avrete una vera e propria gestione della qualità degna di questo nome. E il medico, oggi ostacolato dalle definizioni del servizio sanitario e dello Stato, per la prima volta avrà delle basi reali su cui sviluppare le proprie attitudini personali. Cosa significa nel concreto? Nel concreto non significa altro che rimpossessarsi del processo costitutivo dell’autorevolezza. L’autorevolezza per me è rappresentata da colui al quale la concedo in base al mio giudizio personale. Ne consegue dunque che non avrò la pretesa di operare se ad esempio sono un falegname. Ma avrò la pretesa di giudicare se lasciare spazio a un’altra persona affinché mi operi e quindi permettergli di essere un medico. Questo non significa che posso rivendicare ovunque uno spazio per me stesso, ma all’inverso, che a poco a poco imparo a “concedere” spazio a colui che se l’è guadagnato in base al mio giudizio personale. Che non significa dare un giudizio approfondito senza avere le dovute competenze, bensì lo spazio di cui sopra in favore di chi nell’ambito di una certa questione tecnica possa rappresentare per me l’autorevolezza. E chiunque, infine, può rappresentare l’autorevolezza per qualcun’ altro nell’ambito di una certa relazione, perfino un bambino. In questo modo, invece dell’attestato, entra in gioco l’interesse nell’altro. Questo è ciò che si intende con il concetto di vita intellettuale libera: elaborare un’immagine delle persone. Si intende una vera osservazione dell’altro, mettersi di fronte all’altro da pari a pari. [2] Poco fa ho detto che esistono tanti concetti di Tripartizione quante le teste in questa stanza. Da questo punto di vista ognuno è da solo con il proprio concetto, cosa vera solo per metà. La cosa è vera solo finché considererete l’idea della Tripartizione Sociale come la ragione fondamentale del nostro incontro. E lo sarà finché ragionerete da realisti idealisti e osserverete l’idea che ho messo al centro, l’idea della Tripartizione Sociale, in sé. Finché ci fermiamo solo a guardare questa idea, finché ciascuno la guarderà da parte sua. Invece la cosa appare del tutto diversa se poniamo attenzione non solo all’idea, ma anche alla persona che l’ha pensata, se osserviamo come l’oggetto comune sia percepito da ciascuna individualità, in quale preciso modo l’idea si radica nel singolo, se indaghiamo sulle ragioni da cui consegue che per una certa persona un concetto acquista una data sfumatura e un’altra per qualcun’ altro. Lo spirito vive un’altra vita, oltre a quella in me stesso, solo nelle altre persone. E nel momento in cui non solo ci soffermiamo sull’idea, ma identifichiamo anche la persona che l’ha pensata, in quel preciso momento superiamo agilmente i limiti imposti dalla nostra individualità. Possiamo vivere una comunione con lo spirito come non è possibile fare nei limiti della nostra individualità. Con termini più filosofici, si può anche dire: non si può essere obiettivi tenendo gli occhi fissi sull’oggetto e generalizzando il proprio punto di vista; lo si può fare, invece, includendo nel pensare anche i soggetti. Questo, però, implica che l’uomo sia intimamente interessato ad assecondare l’altro affinché viva appieno la vita a modo proprio. In effetti proprio per egoismo ognuno dovrebbe sviluppare un interesse per la libertà del prossimo. Cosa me ne viene, infatti, se l’altro imita il mio modo di vedere le cose perché, ad esempio, vuole un attestato? Cosa, se non fa uscire le forze che mi mancano? Senza la libertà dell’altro non posso arrivare alla cosa in sé, ma sono costretto a rimanere imprigionato in eterno dentro ai confini della mia personalità. Il senso del mondo, dunque, si palesa solo nel vivere sociale, e precisamente in quella parte/quell’arto dove l’uomo, nell’incontro individuale, ha la possibilità di superare sé stesso, vale a dire nel libero vivere spirituale. Ogni uomo, per raggiungere la perfezione, ha bisogno di promuovere attivamente la libertà del prossimo. In questo ambito la libertà in sé è il mezzo con cui costruire la comunità. E per di più è l’unico elemento che ci fa andare oltre l’isolamento dei concetti.[3] Riguardo la vita spirituale non resta molto altro da dire. Tuttavia da quanto detto è possibile già dedurre cosa ne consegue: un incontro diretto libero e liberatore individuo a individuo. A questo proposito dobbiamo riflettere su tutt’altra cosa. Dobbiamo pensare che questo incontro possa avvenire solo nella vita reale. Può succedere solo grazie alla nostra natura corporea e al nostro poterci incontrare nello spazio esterno. Questa sembra un‘ovvietà, eppure è la cosa meno compresa al giorno d’oggi. Io devo potere stare qui. Voi dovete stare seduti sulle sedie. Deve esserci un’illuminazione, forse un autobus ha dovuto portarci qui e noi dobbiamo indossare vestiti. Anche tutta questa esteriorità è il risultato di una relazione fra gli uomini, anche se completamente diversa da quelle che vi ho appena descritto. Noi non siamo inseriti solo in una vita intellettuale, ma anche in un altro spazio. E voi adesso state contribuendo a costruire anche questo; qui c’è qualcosa che fluttua, qualcosa che si muove in modo incessante per opera vostra, ma regna la totale inconsapevolezza sul come lo facciate. E regna l’inconsapevolezza perché voi non riuscite più a entrare consapevolmente in questo spazio di cui vi ho appena parlato. Se volete entrarci con l’ideale della libertà, in tal modo avete già escluso la consapevolezza riguardo a tale ambito. La cosa paradossale, però, è che anche in questo modo potete arrivare alla consapevolezza. Potete addirittura trasformarvi nello sveglio e consapevole co-autore anche di questo spazio. In questo caso, tuttavia, i rapporti sono molto complicati. Prendete ad esempio quella lampada là sopra. Dentro c’è una lampadina. Cercate di capire su cosa si basa il fatto che la luce è accesa. Si basa sul fatto che qualcuno ha portato qui la lampadina, che qualcun altro ha fabbricato; che qualcun altro ha prodotto il vetro e che un altro ancora il filo incandescente e che un altro ha estratto dalla terra il materiale per fare il filo incandescente. E ancora, se tutti nel frattempo si sono nutriti dipende dal fatto che un contadino ha coltivato il grano e ha guidato un trattore che qualcun altro ha costruito e via dicendo. E se noi ora possiamo essere qui riuniti a riflettere sul libero vivere spirituale dipende dalla collaborazione esistente fra tutti gli uomini. Le persone nella vita economica si collegano le une alle altri in tutt’altro modo rispetto a quello che ci lega nella vita spirituale. E anche noi ci colleghiamo gli uni agli altri quando prendiamo parte alla realizzazione delle condizioni esteriori. Gli intrecci relazionali nei quali realizziamo noi stessi in questo ambito sono complicatissimi, al punto che è molto difficile coglierne la sostanza. In cosa consiste la sostanza? Consiste nel fatto che tra le persone si inserisce la materia. Questo ambito è caratterizzato dalla nostra impossibilità di realizzare l’incontro individuo-individuo. La materia, in un certo senso, si intromette nell’incontro. Ad esempio prendiamo il contadino che mi procura il cibo: vero è che non si dedica a me direttamente, ma alla terra. Lui non mi conosce affatto. Non vuole e tanto meno deve comprendermi. Si dedica alla terra e la deve comprendere. Anche questa, però, è a sua volta una mezza verità. Infatti il contadino si dedica alla terra perché questa si trasformi a fronte dei miei bisogni, quindi egli si dedica anche a me, anche se attraverso la terra. In un certo senso mi prende in considerazione attraverso la materia, entra in contatto con me per mezzo della materia trasformata. E quello che succede tra le persone quando si uniscono attraverso la materia non può essere compreso da loro se vogliono cogliere lo spirito direttamente nell’incontro. Abbiamo bisogno di una vita spirituale libera per ragioni di carattere spirituale, non solo economiche [4]. Dobbiamo cercare l’incontro individuale solo a partire da motivazioni spirituali. Ma questo non possiamo più farlo dove l’incontro uomo a uomo si interrompe. Lì, al contrario, possiamo fare qualcos’altro. In un certo senso possiamo immergerci con lo spirito nei rapporti materiali in modo da renderli visibili e diventino visibili alle persone, per quanto questo risulti di difficile realizzazione. E proprio in ragione di questa difficoltà nelle cose esteriori che ci circondano al giorno d’oggi vediamo sempre più solo una limitazione del sociale. Per noi il mondo rimane sempre e solo qualcosa di esteriore e materiale. In questo la consapevolezza dell’uomo si annulla, non viene toccata. Lo potete vedere in alcuni presunti esponenti della Tripartizione. Quando trattano di argomenti economici, dietro alla parola “economia” si nascondono concetti legati solo alle scienze naturali e non economici. Si tratta di una concezione che rimanda ai processi della natura quella che prevede una realtà sociale quale prodotto dell’economia, sia essa considerata nella vita spirituale o in quella politica. Ma la verità è un’altra. Non è la natura a collegarci gli uni agli altri nella vita economica, bensì la natura trasformata, la merce. E la natura trasformata è intricata al punto da non consentirci di poterla comprendere con precisione. Per questo abbiamo bisogno di qualcos’altro. Allora, parlando di vita spirituale, avrei potuto fare un discorso per punti fino a sfiorare il lirismo. E qui vi sarete già accorti che parlo in prima persona. In questo ambito è giusto presentare sé stessi e i propri concetti. Nella vita economica non è più così. Per questo prima ho fatto un disegno alla lavagna. Di certo vi sarete chiesti il motivo. Il motivo è in parte perché per tutto il tempo vi sareste domandati cosa rappresenta: un modo per essere sicuro che mi avreste seguito (risate). Adesso, però, vi svelo di cosa si tratta. No, non è nessun corpo eterico o qualcosa di simile; le macchie verdi rappresentano ciascuna un’azienda agricola. Quelle blu invece rappresentano le industrie, che so io, tessili o similari. Come vedete la risposta è molto banale. Alla lavagna ho fatto un disegno dell’economia globale. È un disegno e, in quanto tale, è una rappresentazione semplificata di rapporti basilari. Per fare un calcolo semplice, facciamo che in questa piccola realtà economica globale vivano solo cento persone, divise in due gruppi, quello dell’economia agricola e quello dell’industria tessile, quello delle fattorie e quello delle industrie tessili. Si tratta solo di un disegno per rendere comprensibili i principi dell’economia globale. Adesso dentro vi scrivo: fattoria 1, fattoria 2 e fattoria 3, e dall’altra parte fabbrica 1, fabbrica 2 e fabbrica 3. E adesso proviamo a guardare più attentamente. Già da questo disegno è possibile discernere molte cose. Se, come ho detto, sono cento persone a viverci, abbiamo la certezza che per vivere hanno bisogno di determinate cose che la natura non può dare loro. Ad esempio, pane e vestiti. Queste cose non sono prodotti della natura, ma del lavoro dell’uomo. Queste persone, se non consumassero i prodotti che esistono nel mondo solo grazie al lavoro dell’uomo, non esisterebbero. Questo è evidente. Non dico nulla di nuovo e non faccio altro che dare una descrizione precisa dell’immagine da un altro punto di vista se dico che poi ciascuno nel suo piccolo consuma in un anno una certa parte di queste merci, che nell’esempio in questione sono una parte della produzione totale di grano e una parte dei prodotti tessili. Ne consegue che ogni anno deve essere prodotta una certa quantità di grano e una certa quantità di prodotti tessili. Deve nascere un preciso rapporto legato alle quantità fra grano e prodotti tessili affinché possa esistere il tutto. Lo potete comprendere tutti, non servono grandi spiegazioni matematiche. Adesso, però, vi faccio una domanda: il fatto che queste cento persone siano divise nei due settori è frutto di una libera scelta? Posso decidere liberamente quanti di questi cento debbano essere impiegati da una parte e quanti dall’altra? Potrei forse dire, ad esempio, cinquanta sono contadini e cinquanta sono sarti? Oppure dieci contadini e novanta sarti? Oppure ancora posso fare che solo uno sia contadino e gli altri novantanove sarti? No, avete pienamente ragione, non è così che funziona. Grano e prodotti tessili richiedono un diverso dispendio di energie. E a seconda dell’entità del lavoro, il risultato in termini di ore lavorate per un settore e per l’altro è molto diverso. Ne consegue poi anche la necessità di mano d’opera da impiegare. Attenzione a non farvi trarre in inganno dal pensiero del lavoro svolto dalle macchine. Perché è ovvio che parliamo del lavoro svolto dall’uomo senza il loro aiuto. In relazione all’ambito sociale parliamo di quello che l’uomo fa. Solo questo è da intendersi “lavoro” in senso economico. L’altro è da intendersi come lavoro fisico e ai fini della questione sociale che stiamo trattando non va preso in considerazione. E anche ai fini della questione economica non cambia nulla pensare che i contadini lavorino ancora con i cavalli o che usino il trattore. Infatti ammesso che le condizioni tecniche siano di un certo tipo a seconda del momento, quello che ne deriva è un certo numero di ore di lavoro che devono essere le persone a realizzare, come ad esempio guidare il trattore. Ed è solo di questo che parlo, perché solo in tal caso riusciamo ad addentrarci nella vita economica. Per quanta tecnologia vi sia, è solo in un secondo momento che entra in gioco la vita economica. Ammettiamo infatti una certa produttività per persona in base a condizioni tecniche stabilite, quello che resta per ciascun settore è un certo dispendio di lavoro svolto dall’uomo. Questo lavoro serve per preparare la merce nelle quantità che saranno effettivamente impiegate. In riferimento ai cento abitanti della nostra piccola realtà economica è necessario suddividere con precisione i lavoratori nei due settori per ottenere un giusto rapporto delle merci in termini quantitativi in base ai consumi effettivi. Il rapporto deve cambiare in funzione dei bisogni. Può darsi che il rapporto giusto sia settanta contadini e trenta sarti, oppure potrebbe essere meglio ottanta contadini e solo venti sarti. Naturalmente non posso saperlo prima che la cosa sia definita sul piano dei bisogni reali delle persone. Qui potete vedere che la questione sulla scelta della professione non è trattata dal punto di vista abituale. Oggi diciamo: mi piace l’idea di essere insegnante, quindi faccio l’insegnante. Non è la mia inclinazione personale a definire il “lavoro” in senso economico, ma i bisogni del prossimo. Il lavoro è stabilito semplicemente dall’organismo naturale. Non è un essere malvagio a farci lavorare, ma la natura dell’essere umano. Si tratta di un lavoro ben concreto e di una precisa entità. Nel nostro disegno abbiamo considerato bisogni necessari per la sopravvivenza, pensando a una divisione fra settanta contadini e trenta lavoratori dell’industria tessile. Facciamo che non possa esservi alcuna libertà per far vivere tutti, ma che siano assolutamente necessari settanta contadini e trenta sarti. E ammettiamo che lavorino. Provate a osservarli con calma e vi accorgerete subito di qualcos’altro. Potete vedere che nessuno qui lavora per sé stesso. Proprio come l’insegnante non insegna solo ai propri alunni, i contadini non consumano il grano da soli. No; il prodotto del lavoro dei contadini alimenta tutte le persone e lo stesso avviene anche per i prodotti dell’industria tessile. In altre parole, per esistere ognuno dei cento abitanti sfrutta una parte della produzione totale derivante dal lavoro. Ciò che riceve il singolo proviene dalla collettività. All’inverso la produzione totale si realizza solo quando il singolo riesce a collocarsi in un punto dove gli è possibile contribuire alla produzione totale. Per essere compresa, la questione del reddito deve essere in un certo senso capovolta. Su questo tornerò fra poco. Adesso dobbiamo mettere in movimento questa immagine. È ancora troppo rigida per rappresentare a tutti gli effetti il fluttuare del processo economico. Pertanto vi invito a immaginare come si svolge il lavoro. Le cose vanno lisce per qualche anno. Poi però avviene un cambiamento nella natura. L’uomo non può fare nulla nell’immediato per fare in modo che la natura segua le proprie leggi. Quando lo dico alle persone delle grandi città, c’è sempre qualcuno che non ci crede. Non credono al fatto che la natura cambi semplicemente perché hanno sempre comprato il pane al supermercato. Ma è questo che succede. Il pane è da un lato frutto del lavoro dell’uomo e dall’altro frutto della natura. E anche questo aspetto naturale muta di continuo. Il risultato del lavoro umano, quando questo è costante, varia di anno in anno. Prendiamo un caso estremo: ammettiamo che si verifichi un’erosione del terreno. Il terreno si impoverisce. Un grosso problema che negli anni passati ha toccato la Cina. Oppure ammettiamo che vi sia un periodo di siccità, come qualche anno fa è successo in Russia. Non c’è niente da fare; dopo un anno la produzione di grano è inferiore. Con lo stesso numero di persone il grano prodotto è sempre meno. Questo è un punto che dovete tenere a mente: con la stessa quantità di manodopera la produzione di grano è stata inferiore. Cosa ne consegue? Allora consideriamo per prima cosa il produttore tessile. Per il quale non è cambiato nulla. La sua potenzialità di offerta è sempre la stressa. Ma quello che gli serve per la produzione, non lo riceve più. Non c’è più. Al suo rendimento si contrappone quello dell’altro in quantità inferiore. E cosa succede al contadino? Il contadino dovrà impiegare per sé stesso la maggior parte della sua produzione prima di poter fornire qualcosa per i prodotti tessili. Produrrà più che altro per sé stesso. E il produttore tessile, a sua volta, non potrà fare altro che prendere le rimanenze di grano per non morire di fame. In risposta non potrà fornire meno prodotti tessili di quelli disponibili. Le due cose non sono correlate. Il risultato, però, è che il grano diventa troppo caro e i prodotti tessili troppo economici! Qui è stato considerato il concetto di prezzo dal punto di vista dell’economia reale. E oggi non accade nulla di diverso; anche oggi il prezzo si determina in base a questi rapporti. Vediamo di comprendere meglio il concetto. Prima però vediamo di aiutare le cento persone in questione, siete d’accordo? Per non farle morire di fame. E moriranno di fame se non faremo nulla. Provate a pensare che continuino a lavorare per altri due, tre, quattro e cinque anni. La disuguaglianza sarà sempre maggiore, fino a che i produttori tessili moriranno di fame. Cos’è che possiamo fare? Avete un’alternativa? Ragazza: “Dobbiamo fare in modo che un numero sufficiente di lavoratori migri dal settore tessile a quello agricolo. Dobbiamo spostare la forza lavoro del settore in cui i prodotti sono troppo economici in quello dei prodotti troppo cari”. Grazie. In effetti questa è l’unica risposta possibile. Sono molto sorpreso del fatto che lo abbia colto subito. È un esempio che uso spesso, ma il più delle volte ci vuole un po’ prima che qualcuno sia disposto a rinunciare al proprio posto di lavoro in pubblico. Perché è di questo che si tratta. Ma Lei ha ragione, questa è la sola risposta plausibile. La risposta che ricevo con maggior frequenza è la seguente: “bisogna importare il grano”. Raramente c’è anche qualcuno che come alternativa propone di esportare i prodotti tessili. Entrambe le risposte tuttavia sono da escludere nell’ambito di un’economia globale basata sulla divisione del lavoro. Quando parlo di economia globale devo considerare tutta la superficie coltivabile a disposizione, così come tutte le industrie tessili esistenti e così via, e non le superficie coltivabili della Repubblica Federale. Se oggi avessimo ancora un’economia nazionale, potremmo anche parlare di importazione e di esportazione. Ma poiché oggi siamo in presenza di un’economia globale, non esiste più la possibilità di risolvere gli squilibri grazie all’importazione e all’esportazione. Non è più possibile risolvere il problema dei prezzi ai confini dell’organismo terrestre tramite l’importazione e l’esportazione. Infatti il commercio con la luna non è possibile. Quindi dobbiamo risolvere il problema dei prezzi entro i confini terrestri. Per la precisione non è ovunque così, ma dove esiste un’economia globale il confine è stato raggiunto. L’impossibilità di ragionare alla vecchia maniera segna il punto di inizio dell’economia globale e da quel momento in avanti si deve adottare il concetto di “economia globale”. A questo punto occorre sviluppare un nuovo pensiero economico, oppure arrivare addirittura a far scoppiare una guerra. La guerra è la sola alternativa al pensiero economico. Una guerra può a tutti gli effetti essere di aiuto. Una parte della popolazione ad esempio, a causa della distruzione di alcuni mercati, potrebbe crearne altri, e via dicendo. Per un periodo la cosa potrebbe funzionare. Ma in questo modo stiamo parlando di guerra e non di economia. E se date un’occhiata alle ricerche delle nostre università, vi accorgerete che le nostre presunte “scienze economiche” sono più che altro fondate su concetti di tipo bellico che non di tipo economico. [5] Domanda: “Non ho ancora capito perché il profitto aumenterebbe impiegando un maggior numero di persone nell’agricoltura. La qualità del terreno resterebbe comunque la stessa”. La qualità del terreno non c’entra affatto. Per la precisione si potrebbe pensare a un miglioramento delle condizioni del terreno dal punto di vista teorico. Prima, però, bisognerebbe far succedere qualcosa nella vita spirituale, dovrebbe nascere un’idea ed esistere una capacità di migliorare la qualità del terreno. Il fatto, però, è che le nuove idee non nascono nel preciso istante in cui l’economia lo richiede. Bisogna osservare la vita spirituale di per sé, considerarla come si fa con la natura. La natura determina il punto di partenza del fare economico e lo stesso fa anche la capacità del singolo. Quindi è importante che non confondiate il concetto economico del lavoro con quello fisico. Perché è grazie alla fisica che lo spirito sconfina nell‘economia, mentre grazie alla tecnologia risparmia lavoro economico. In un certo qual modo bisogna separare dall’economia sia la tecnologia sia la natura per poter osservare il processo economico come tale. Se non lo si fa, si delinea solo il problema economico. Ho considerato le capacità di cui l’uomo dispone esattamente come considero la natura. Considero capacità e tecnica attuali in un preciso momento x e la qualità del terreno come essa si presenta. Ed ecco che però sorge un problema. Spirito e natura sono un problema, non una soluzione. Potete anche dire: a seconda delle condizioni di natura e spirito, l’economia si sviluppa in una direzione o in un’altra. Lo spirito e la natura sono sempre causa di disequilibrio nell‘economia. Entrambi, però, sono fattori che una volta tolti dall’ambito della vita economica vanno solo presi per quello che sono. L’economia può quindi solo occuparsi di cancellare questo disequilibrio creando un bilanciamento fra spirito e natura. I cambiamenti della natura sono il problema, non la soluzione. E allo stesso modo anche lo sviluppo dello spirito costituisce un problema e non una soluzione. Vedete, non avrei dovuto parlare di scarsa qualità del terreno, quanto della nascita di idee nella sfera spirituale tali da migliorare la qualità del terreno. A quel punto ci troveremmo di fronte allo stesso problema, solo rovesciato. Per cui, con il medesimo numero di lavoratori, avremmo un aumento dei ricavi nell’agricoltura. E in tal modo i prodotti agricoli diventerebbero troppo a buon mercato rispetto a quelli tessili. Lo spirito e la natura agiscono sempre e solo su settori presi singolarmente. La nostra vita, però, non ne è per nulla toccata, quanto lo è invece dalla relazione che intercorre fra un settore e l’altro. L’economia è influenzata dalla proporzionalità e non dalle quantità assolute dei singoli prodotti. Questo è un dato immutabile di cui ci si può rendere benissimo conto a partire dal quadro che ho fatto. Quindi considerate il terreno così come è nel momento x e le capacità così come sono. Il profitto globale sarà maggiore quanto maggiore sarà il numero delle persone impiegate nell’agricoltura rispetto a prima. Non vi torna? Domanda: “No, non lo capisco. Nel mio pensiero il profitto non cambia”. Allora, in quanto uomo mi è possibile riempire un solo spazio. Il mio raggio di azione si estende fino a un certo punto, anche con un trattore o con l’aiuto delle macchine. Posso fare e creare un numero limitato di cose. Di più non è possibile. Per averne di più, occorre che qualcun altro si metta accanto a me e faccia lo stesso. In questo modo se ne avrà di più. Va da sé che la produzione sarà maggiore se lavoreranno 40 persone invece di 30. Ho paura che sia il vostro pensiero a trarvi in inganno. D’istinto state facendo coincidere il “profitto” con il “guadagno”, come vi suggerisce il modo di pensare giuridico. È così? È tuttavia interessante che sorga questo tipo di problema legato al modo di pensare. A trarvi in inganno è la tradizione greco-romana. Resta comunque una questione aperta: se un numero maggiore di persone lavora alla realizzazione di un prodotto, questo sarà più economico e non più costoso. Poi però pensiamo: se un numero maggiore di persone lavora nello stesso settore, tutti dovranno ricevere delle entrate e il prodotto potrebbe anche diventare più costoso. In questo modo stiamo pensando in termini di diritti, di contabilità e di proprietà soggettiva. Questa logica non ha nulla a che fare con la realtà. Non accade nemmeno che il singolo agricoltore consumi quello che lui stesso produce. Le entrate effettive di ciascun individuo, ovvero ciò che ciascuna persona consuma, è costituito piuttosto da una percentuale della produzione totale di tutti i settori. Questo vale per qualsiasi entrata di qualsiasi settore. Bisogna tenerlo presente per analizzare anche il modo in cui movimenti del singolo individuo modifichino la produzione globale, di cui le entrate costituiscono una percentuale. In tal modo avrete messo a fuoco l’economia. Poi però noterete anche che il vostro pensiero si rifà a un’immagine, che tuttavia è in costante movimento. Come compito a casa, provate a rispondere alla seguente domanda: perché, in presenza di determinate condizioni tecniche e con un maggior numero di persone impiegate, il prodotto diventa più economico e non più costoso, laddove le entrate di questo settore aumentano? Ora ammettiamo di voler aiutare le persone. Consideriamo la proposta della signora, ovvero trasferiamo personale dal settore tessile a quello agricolo. Di cento abitanti, prima settanta erano contadini e trenta erano sarti. Adesso ampliamo il settore dell’agricoltura, cosa possibile solo rimpicciolendo l’altro settore, in modo da avere ottanta contadini e venti sarti. In questo modo la quantità di grano rispetto a quella di prodotti tessili aumenta in modo tale da rovesciare il rapporto. Il prezzo dei beni agricoli si abbassa rispetto a quello dei beni tessili. Il rapporto di prezzo corrisponde nuovamente ai bisogni dell’uomo. E adesso vorrei che aveste chiaro cosa significhi questa cosa. Significa che adesso tutti rinunciano a un posto di lavoro, per la precisione nel settore tessile. I prodotti tessili, per contro, diminuiscono e diventano più cari. L’ampliamento di un settore all’interno di un‘economia basata sulla divisione del lavoro corrisponde sempre al rimpicciolimento di un altro settore e di conseguenza anche che il bene di tutti è sempre contrapposto a una rinuncia concreta da parte di tutti. E questo lo sappiamo per una ragione molto chiara. Lo sappiamo perché esiste un rapporto di valore oggettivo delle cose commisurato all’organismo umano. Non sono io a poter definire questo rapporto di valore oggettivo, mentre possono farlo i bisogni effettivi. Possiamo forse dire che un uomo preferisce stare in camicia per due mesi ed essere sazio, piuttosto che morire di fame in giacca e pantaloni. Ma come ho già detto, non mi è dato saperlo. Potrebbe anche essere diversamente, ovvero che da parte delle persone vi sia più domanda di vestiti, anche se la cosa comporta che muoiano di fame. I presupposti sono quindi rappresentati da ciò che i bisogni esprimono. In un certo qual modo ne risulta una gerarchia dei bisogni, un rapporto di valore oggettivo. Fare economia non significa altro che mettere in armonia i rapporti della produzione con i rapporti di valore oggettivi. Se fra i settori regna un rapporto di armonia con ciascun rapporto di valore oggettivo, otteniamo rapporti di prezzo che consentono a ogni persona di poter vivere. Quindi la questione non è solo incentrata sulla crescita, ma anche sul calo cui si è già fatto accenno. Sono due aspetti in correlazione fra loro, due facce di una stessa medaglia. E la mancata comprensione di questo rapporto, malgrado la sua concretezza, corrisponde alla crisi europea e dell’Euro. Per questo oggi si è costretti a fare speculazione e non è possibile fare altrimenti. La questione sarebbe diversa se si conoscesse all’istante e con precisione quale settore debba essere sviluppato e quale invece depotenziato in quel dato momento x, a seconda dei bisogni effettivi. Da quando esiste un’economia basata sulla divisione del lavoro, l’umanità si trova a dover rispondere alla domanda sul come da un lato comprendere il rapporto di valore oggettivo e dall’altro adattarvi i rapporti di produzione, ovvero come e in quale preciso momento travasare i lavoratori da un settore all’altro. Nella nostra scienza economica questo problema emerge sotto un'altra forma, ovvero come cosiddetto “problema della guida”. E sapete come i nostri economisti intendono risolverlo? In nessun modo. Dicono addirittura che all’uomo non è data scelta di risolverlo. Questa è la loro teoria. All’uomo non è data scelta di risolverlo, perché in tal caso sarebbe di intralcio al procedimento di risoluzione spontaneo del problema stesso. La teoria è appunto questa: il problema si risolve da solo. Quindi bisogna lasciarlo stare. E in che modo si risolve da solo? Attraverso l’avidità dell’uomo. Dietro all’avidità c’è infatti la cosiddetta mano invisibile. Che è un termine di derivazione teologica, come forse saprete. L’uomo deve pensare solo a sé stesso e Dio risolve il problema. Questa è la teoria. E questo dogma religioso ha un’assolutezza tale che non vi sarà possibile insegnare né pubblicare da nessuna parte senza una professione di fede in questo Dio. Perfino la sinistra ha riconosciuto l’“Economia sociale di mercato” e ha professato la sua fede nella mano invisibile. In che modo il buon Dio risolve i nostri problemi? Sulla base del nostro disegno, vorrei abbozzare la raffigurazione di questa idea. Basandoci sul nostro disegno, secondo questa teoria dell’economia sociale di mercato per prima cosa il grano diminuisce nel modo che vi ho descritto. Ne consegue che i contadini possono aumentare i prezzi. E questo, come abbiamo detto, rappresenta un problema per i produttori del settore tessile. La teoria allora ci dice che questi produttori del settore tessile sono molto scaltri. Anche loro, infatti, vorrebbero alzare i prezzi, perché anche loro vogliono diventare grassi come i contadini di cui sopra. Quindi cambiano settore. L’avidità li fa avvicinare al settore agricolo, perché anche loro vogliono approfittare dell’austerità, perché anche loro vogliono alzare i prezzi. Allora continuano su questa strada. E in questo modo il prezzo del grano cala. E continua a calare fino a diventare troppo basso. E qui naturalmente entrano in gioco i contadini. Perché il grano è effettivamente diventato troppo a buon mercato. Così l’avidità porta di nuovo le persone a uscire dal settore agricolo e a entrare in un altro settore, fino a che anche qui i prezzi diventano troppo bassi e le persone non possono viverci. Ma le persone che da una parte sono in sovrabbondanza, risultano mancanti da un’altra parte. Allora ci si trova nuovamente di fronte all’austerità e alla mancanza. E l’avidità dell’uomo continua e continua ancora. È come un pendolo che oscilla e più lontano colpisce, più persone periscono, o perché il loro settore è troppo svalutato o perché un altro è trascurato. Vedete quindi che la costante produzione di mancanze è l’effettivo motore di questa teoria. Senza il presupposto della mancanza non è possibile parlare di economia di mercato. Nel frattempo, a sostegno di questa teoria, ogni anno oltre 30 milioni di persone sono costrette a morire di fame e questo numero è destinato a crescere. Questo è ciò che si chiama meccanismo di mercato. Economia di mercato non significa altro che non trovare il rapporto di valore oggettivo. Si resta prigionieri della pura soggettività. E questa prigione della soggettività è eretta a religione, a religione di Stato. Ma l’oggettività è sempre e comunque lì, anche se la si ignora. Semplicemente attraverso quello che i bisogni delle persone esprimono, che è sempre lì. E se si ignora questo fatto, perché si confida nel buon Dio, ci si scontrerà sempre con i fatti in un modo che non lascia illesi. Il rapporto di valore oggettivo è sempre lì, che lo si voglia o no. E ignorandolo, per causa sua le persone non possono che essere costrette a rinunciare a qualcosa. In definitiva il rapporto numerico fra le persone è tuttavia regolato dall‘irrealizzabilità, dalle persone che finiscono in mezzo a una strada, da quelle che muoiono, fino a che, seppur inconsciamente, si è obbligati a seguire il rapporto di valore. Si può dire che là fuori si scatena il Dio dell’economia. Che si scatena ovunque, dove l’uomo non riesce ad afferrare né a comprendere se stesso come essere economico. La domanda è la seguente: come è possibile individuare l’oggettività prima che sopraggiunga l’irrealizzabilità? Come si fa a indirizzare il lavoro dell’uomo verso rapporti di valore oggettivi in modo da permettergli, in un certo senso, di dosare gli equilibri e controsterzare nel momento in cui il rapporto minaccia di ribaltarsi? Proprio questa è la domanda che si pose Rudolf Steiner dopo la Prima guerra mondiale. E la risposta che ha dato è, a dir poco, eccellente. Non dobbiamo per questo leggere Steiner a tutti i costi adesso. Infatti potete arrivarci da soli a partire dai fatti. L’eccellenza sta nell’aver dato retta ai fatti invece di abbandonarsi alle utopie. Ci arrivate da soli. E solo tenendo presente quello che ho appena fatto, cioè ho disegnato una freccia e ho spostato i lavoratori nell’altro settore. Allora ci arriverete. Dovete includere nell’immagine anche me che disegno la freccia. Su cosa si basa il fatto che io disegni una freccia e che possa dire se e quante persone debbano essere trasferite dal settore tessile a quello agricolo, in modo da ottenere un rapporto che consenta a tutti di vivere? Perché lo posso fare, sulla base di che cosa? La cosa si basa sul fatto che io dispongo di una coscienza assoluta, che io mi metto in una posizione di autorialità e che quindi osservo dall’alto tutti gli ambiti della vita economica. So con certezza cosa ciascuno trovi nel posto che occupa. Conosco le condizioni cui il contadino si trova di fronte e come lui le giudica. Conosco anche il giudizio di chi produce nel tessile rispetto a cose a lui connesse, che solo lui riesce a cogliere e può davvero giudicare. Conosco le sentenze che solo una persona al proprio posto può emettere nonché i bisogni di ognuno. Ma questa è una cosa impossibile. Non mi è possibile abolire le condizioni dello spazio fisico. Dovrei uscire da me stesso e mettermi nei panni delle altre persone per riuscire a giudicare quello che vedono attraverso la loro percezione. Perciò, questo dice Rudolf Steiner, applicare il pensiero individuale all’economia è una emerita sciocchezza. Il pensiero individuale non può affatto giudicare cosa sia giusto ai fini dell’economia globale. Le previsioni fatte in questo modo sono utili quanto leggere i fondi del caffè. Se credete di trovare uno Steiner che sottolinea il pensiero, in questo caso troverete l’opposto: proprio sulle questioni dove tutto il mondo vuole usare il pensiero, Steiner contrappone al pensiero la competenza. Secondo Steiner la questione che l’economia globale ci mette davanti non è un invito al pensiero, ma all’azione immediata. Tutto il pensare, infatti, deve potersi reggere sulla percezione se si vuole arrivare a un giudizio corretto. E la percezione da cui dipende il giudizio è quella dei rapporti di valore oggettivi. Di conseguenza, dice Rudolf Steiner, per prima cosa devono essere toccate tutte le faccende esteriori affinché ciascun individuo possa conoscere un po’ di quello che solo gli altri possono giudicare, ovvero i bisogni, le condizioni legate alla produzione, di tutto quello che gli altri sanno e necessitano. E devono essere toccate soprattutto anche le faccende esteriori in modo che risultino evidenti gli effetti dell’interazione fra i giudizi individuali. Solo allora, quando ciascun individuo sarà in grado di percepire le interazioni dei giudizi di ognuno in ambito economico e che il fatto di trovarsi ognuno al proprio posto è determinante perché tutti lo siano, sarà possibile dare un giudizio economico globale. Soltanto sulla base di un simile giudizio globale che risulti quindi visibile e che non debba affatto essere “pensato” in senso stretto, ciascun individuo può giudicare il proprio agire economico e inserirlo nel processo globale. Questo significa che la questione economica non coinvolge affatto il pensiero, ma è piuttosto una questione organizzativa a favore della messa in pratica di una percezione. L’uomo infatti non può uscire dal proprio corpo, ma attraverso l’organizzazione può arrivare ad avere una visione globale dei giudizi dei singoli. È così che la chiama Steiner: visione globale dei giudizi dei singoli. Per concludere vi invito a considerare le misure che Rudolf Steiner invita ad adottare. Vorrei spiegarle tornando al nostro disegno. Qui sopra c’è quindi un’azienda agricola che ne ha accanto un’altra e un’altra ancora. Il primo passo proposto da Steiner è il seguente: da ciascuna azienda agricola viene mandato un collaboratore perché ne incontri un altro di un’altra fattoria. Quindi ciascuno esce dall’azienda per incontrarsi con gli altri nel mezzo. Lì si scambiano le proprie esperienze, poi ciascuno torna alla propria azienda e condivide con i colleghi quello che ha appreso dalle altre aziende. Questo significa che nel mezzo abbiamo un consiglio di azienda che non è di una singola, ma esteso a più aziende, ovvero un consiglio per tutto il settore dell’agricoltura. In questo modo ciascun agricoltore ottiene una visione della situazione globale del proprio settore. Non solo conosce i comportamenti del proprio terreno, ma anche la situazione che devono affrontare gli altri contadini e conosce l’andamento generale della produzione di grano. Conosce anche le invenzioni entrate in uso, dove sia possibile risparmiare lavoro, perché ciò che va a confluire nelle condizioni spirituali è fondamentale e modifica le condizioni possibili esattamente come la natura. In modo da permetterci di decifrare i misteri dell’impresa. E lo stesso avviene nel settore tessile e in tutti gli altri settori. In ogni settore i collaboratori di tutte le aziende, o perlomeno una parte di rappresentanza, sono stretti gli uni agli altri da un legame di comunicazione attraverso un consiglio esteso a più aziende. Questo però è solo il primo passo. Un secondo prevede che questi consigli mandino a loro volta qualcuno a incontrare i rappresentanti degli altri consigli, in modo che alla fine venga a costituirsi un consiglio esteso a tutti i settori comprensivo di tutti i rappresentanti dei diversi settori. Questi discutono e riportano nel consiglio quanto appreso e i consigli a loro volta lo trasmettono alle singole aziende. In questo modo ciascun lavoratore non ha soltanto una visione del proprio settore, ma anche del rapporto di quest’ultimo con gli altri. Nel mezzo, quindi, si crea qualcosa di simile a un vertice grazie al quale alla fine ciascun lavoratore è unito all’altro dalla comunicazione. E in questo vertice succede qualcosa di straordinariamente interessante. Infatti qui non si decide nulla e nessun provvedimento viene preso. Vi invito a tenere presente una cosa: quando parlo di rappresentanti dei settori che siedono al vertice, non parlo di “datori di lavoro” o simili. Naturalmente non intendo fondare un nuovo tipo di associazione dei datori di lavoro; si tratta invece di delegati dei lavoratori che hanno lo scopo di trasmettere informazioni. Questo è molto importante. Se dico, allora, che si crea un vertice in alto, esso non va inteso come una classifica, ma come un nodo. Questo vertice non può erogare alcuno stipendio a nessuno. Non può nemmeno dare ordini né concessioni. In esso non si varano le leggi. Nonostante questo solo un tipo di organizzazione come questa consente una gestione dell’economia così come di esercitare un potere effettivo su di essa (inteso come l’opposto dell’impotenza). Perché? Adesso guardate il nostro disegno. Nel mezzo vengono messi i rappresentanti dell’agricoltura insieme a quelli del settore tessile. I rappresentanti parlano fra di loro degli argomenti specifici del proprio settore. Ad esempio il rappresentante del settore tessile dice: i nostri bisogni sono rimasti gli stessi e lo stesso vale per le condizioni della produzione. Da parte nostra può restare tutto com’è. Poi interviene il rappresentante dell’agricoltura, che dice: sì, nel nostro settore c’è un problema, si è verificata una riduzione della fertilità del terreno. Nei prossimi anni con le stesse prestazioni potremo produrre molto meno grano. Ecco qui, questo è quanto. Al vertice non deve succedere nient’altro, in linea di principio. I rappresentanti riportano ai consigli d’azienda e questi riportano alle singole aziende. E in fondo, alla base ognuno sa cosa fare. In questo sta la cosa esaltante. Perché lo sa? Perché adesso ognuno conosce quello che Rudolf Steiner chiama il giudizio economico globale e quali relazioni intercorrono fra i singoli giudizi. Allora, pensateci un attimo: il produttore dell’azienda tessile adesso sa che il giudizio degli agricoltori modifica il proprio. Adesso sa che non è possibile andare avanti come è stato fatto fino a quel momento, anche se, dal suo punto di vista, all’inizio sembra così. Lo sa grazie al proprio associarsi ai settori opposti. Se lui poi continua a lavorare come ha fatto fino a quel momento, non riceverà un compenso adeguato alla sua prestazione. Adesso lo sa. E lo sa anche il formatore. Il quale sa che non ha senso formare il personale come prima e che invece adesso occorre una formazione per l’agricoltura. E lo sa anche il risparmiatore. Il quale sa che ha poco senso concedere prestiti all’industria tessile quanto invece ai mezzi di produzione dell’agricoltura. Il che significa poter muovere del capitale e effettuare un travaso dei lavoratori nella consapevolezza della formazione di un valore effettivo. Questo giudizio economico globale è quindi un giudizio che non spetta a nessuno, ma che è un giudizio dell’economia globale, quello che risulta dalla correlazione dei fatti. Quindi, la cosa in questo disegno è molto semplificata, ma il principio dovrebbe essere più chiaro adesso. Cosa succede qui? Si vede che i giudizi individuali si condizionano a vicenda. Qualsiasi giudizio individuale è sbagliato. Se ad esempio dico, che posso realizzare dei pantaloni per 80 euro, la cosa è vera solo se i prodotti che io a mio volta compro possono essere acquistati con questi 80 euro. Ogni giudizio personale in economia è necessariamente sbagliato e più precisamente è corretto solo nell’associazione. Perché il mio calcolo dei prezzi è integrato con quelli degli altri. Che corrisponde a quello che il giudizio del produttore tessile effettivamente significa quando dice: per quanto mi riguarda si può proseguire allo stesso modo per un altro anno; lo si sa solo se si conoscono i fattori sui quali è basato questo giudizio. E questi fattori sono i giudizi degli altri, quelli che non spettano affatto al produttore tessile, perché non si trova al loro posto. Se l‘uomo intende fare delle scelte corrette in ambito economico, può farlo solo attraverso una visione d’insieme dei giudizi. Non esiste altra strada e qualora la si cercasse, si arriverebbe al caos. Il potere statale rispetto all’economia è semplicemente impotente, perché emanare leggi non ha niente a che vedere con la comprensione del valore oggettivo. Nello Stato deve trovare espressione ciò che può essere giudicato allo stesso modo da ogni uomo. L’economia si basa sull’opposto, e questo opposto deve poter essere compreso esattamente come si comprende il senso di giustizia all’interno di una sana democrazia. E il suo funzionamento non è dato dal voto democratico, ma dall’associazione degli ambiti che si intrecciano tra di loro attraverso il lavoro e il consumo. E in tal modo viene a crearsi qualcosa che usando il buon senso si può chiamare potere economico. Si viene a creare un equivalente del potere statale, un potere reale sul processo economico. Infatti, a meno che non ci si voglia rovinare, nessuno intende agire in contrasto con il giudizio che si evince da una visione globale dei giudizi individuali. Cosa dovrebbe fare il produttore del settore tessile dopo aver visto come vanno le cose? Deve continuare a produrre come prima o chiedere un prestito sapendo che domani non venderà nulla? E chi gli farà credito? Quindi l’associazione è tutt’altro che innocua, dato che è un prodotto della logica dell’economia. La legge non è affatto un prodotto dell’economia, bensì del senso di giustizia. Sta su un terreno a parte, proprio come il giudizio economico globale cresce su un terreno a parte. Bisogna andarci a fondo. Perché le cose andranno sempre peggio se si chiederà allo stato di risolvere qualcosa che non può affatto risolvere. Non sarà sottoscrivendo petizioni che andremo verso il futuro, ma organizzando processi di percezione cui si è fatto cenno. Rudolf Steiner chiama “giudizio collettivo” il prodotto che può essere creato ad opera di una organizzazione simile. La separazione operata dall’infrapporsi della materia in un certo senso viene meno grazie all’organizzazione di processi di percezione. Fare associazioni in ambito economico significa creare un organo di percezione attraverso il quale il mondo si palesi all’individuo. E di nuovo solo questo consente al singolo di trovare il movente del proprio lavoro nel progresso del genere umano. Solo questo vi consente di iniziare ad agire secondo morale. Perché solo vedendo l’altro posso agire per amor suo. Al giorno d’oggi siamo tutti costretti ad agire contro morale. Possiamo solo seguire il nostro giudizio personale, che necessariamente non può che essere l’espressione del nostro egoismo. E l’eccellenza dell’approccio di Rudolf Steiner sta proprio nel non giudicare l’uomo come buono o cattivo, ma nel voler creare le condizioni esteriori in modo da indurre l’uomo a volere e a anche a potere fare il bene. Al giorno d’oggi l’uomo non ha modo di fare il bene, ognuno sfrutta l’altro, volente o nolente. Il semplice operaio, dice Rudolf Steiner, è lo sfruttatore peggiore, perché vive sull’economicità e pertanto sulla sofferenza dei suoi simili. Potreste dire che l’associazione è un’utopia. In realtà è esattamente l’opposto. Ora voglio dirvi cos‘è un utopia. Utopia è volere un prodotto Demeter senza creare delle associazioni. Perché se non sapete che il prezzo di un uovo sodo non passa da 20 euro a 50 centesimi senza tagliare le gambe all’uomo e alla natura, non potete creare nessuna Demeter. E anche qui in Svizzera è la stessa cosa. Forse ne siete al corrente. Al momento il biologico sta vivendo una fase di irrealizzabilità e per crescere necessita dello sfruttamento. E la cosa sta generando delle resistenze nei confronti delle catene bio. Queste resistenze, a loro volta, non portano a nulla. Perché l’abbassamento dei prezzi grazie al commercio organizzato non è di per sé qualcosa di negativo, ma una fortuna. Dipende da come si sperimenta l’abbassamento dei prezzi, che rappresenta un ramo della vita economica, grazie all’influsso della vita spirituale, come lo si renda un fatto sociale, nella giusta relazione con gli altri rami. E solo così si è dentro alla vita economica. Si è costretti semplicemente o a comprendere l’associazione o a costruire un castello di menzogne. L’utopia per eccellenza è credere di poter tradurre in realtà il proprio spirito senza fare i conti con la realtà stessa di cui lo spirito ha bisogno per esistere. Un’utopia è nascondersi con la propria anima nella società antroposofica e al contempo la propria volontà guidata dal meccanismo di mercato. In questo modo la società antroposofica è a sua volta antisociale, perché educa se stessa al pensiero utopico. Il pensiero si fa utopico quando la volontà non è spiritualizzata, quando l’uomo non riesce a fare cambiare rotta a un agire influenzato dall’esteriorità e dalla mediocrità, ad esempio sforzandosi di costruire un consiglio aziendale vero e proprio. Invece ci si entusiasma all’idea di un reddito di base incondizionato. Proprio il fatto di non voler riconoscere una vita sociale, ma solo salvare la propria antroposofia, metterà in trappola l’antroposofia stessa. L’economia in sé consente solo l’altruismo. Oggi nessuno può fare di più per la salvaguardia del proprio corpo, se non affidarlo all’umanità intera. Il mio corpo sarà sorretto dalla collaborazione di tutta l’umanità. Viceversa il prodotto del mio lavoro si diffonde nel mondo e in tal modo sono io a sorreggere il corpo del prossimo. Da qui nasce la domanda sulle entrate. Che in questo caso non è più: come posso fare ad avere delle entrate? Ma piuttosto: come faccio a raggiungere quella posizione che nella vita mi permette di rispondere al meglio ai bisogni del prossimo? Infatti solo quando tutti raggiungono quella posizione che permette loro di soddisfare al meglio i bisogni dell’altro, tutti avranno delle entrate. Questa è la realtà. Si può filosofeggiare dicendo che ogni uomo ha “diritto” a delle entrate o che il denaro sia un “diritto”; allora le entrate devono anche essere qualcosa di concreto e al diritto deve corrispondere un valore effettivo. E questa realtà è possibile solo sviluppando un’idea opposta all’utopia di un reddito garantito dallo Stato. Le mie entrate, quindi, possono risultare da un diritto che rappresenta un’ingiustizia per qualcun altro. Se invece il diritto è qualcosa che rende uguali tutti gli uomini, non ha alcuna rilevanza dal punto di vista economico e il suo valore economico è pari a zero. Pertanto dicendo che lo Stato è in dovere di garantire delle entrate, si ha la pretesa non solo di realizzare l’impossibile dal punto di vista economico, ma si elimina anche lo stato di diritto. In questo modo si trasformerà lo Stato in un difensore della disuguaglianza per un proprio interesse personale. Poi entra in gioco anche la questione della cittadinanza, quando si fanno affari, mettiamo, con un tailandese. Il prodotto del suo lavoro non può basarsi solo su un rapporto di prestazione e controprestazione, ma anche sul diritto. Il tailandese, quindi, è tenuto a dare più di quanto dovrebbe se ad essere rilevante fosse solo il rapporto fra le prestazioni. Quando un vostro diritto diventa un’ingiustizia per il tailandese, avrete un reddito di base. E da questo punto di vista ne avete già uno. Il movimento che favorisce un reddito di base incondizionato, come già detto, non è altro che la continuazione spirituale delle disuguaglianze. Se poi si pretende che tutta l’umanità goda di un reddito di base, allora bisognerebbe dire: l’uomo ha diritto a un reddito di base. Però noterete subito che con questo non porta a nulla. Di tutti i domini oggi quello meno compreso è il terzo, ovvero quello della vita politica. La legge infatti viene meno nel preciso istante in cui la si mescola all’economia. Il vero significato della democrazia è quanto di meno concettualizzato esista, proprio perché la legge deve essere al servizio di qualcosa ancora una volta non comprensibile di per sé, ovvero l’economia. Dovete comprendere la vita politica a partire dalla sue origini, esattamente come la vita economica e quella spirituale. Purtroppo il tempo che avevamo a disposizione è volato, ma voglio comunque accennare brevemente alla fonte della vita politica e con essa al terreno sul quale uno stato giusto deve fondarsi. Provate a pensare che io adesso prenda un manganello e mi metta a colpire il ragazzo qui di fronte. Purtroppo non ho nessun manganello con me quindi vi invito a usare la vostra immaginazione. Cos’è che ci collega in questo momento, che tipo di intervallo viene a crearsi anche qui? Qualcosa colpirà la vostra sensibilità e sarà così per tutti. Quindi se lui è fortunato più o meno tutti, o quasi, proveranno la stessa cosa. Altrimenti gli toccherebbe morire, se la maggior parte non pensasse che nessuno può essere trattato in questo modo. Non è così? Si tratta di qualcosa di molto generale, non qualcosa che presuppone un vostro apprezzamento o una comprensione nei confronti di questo signore. Nella vita spirituale la comprensione è fondamentale, mentre qui non lo è affatto. Al contrario la cosa fondamentale qui è che qualcosa di molto generale possa colpire, che voi noi siete liberi in tale condizione e che questa cosa generale esiste, che lo vogliate o no. Poveretto lui se voleste prima fare delle valutazioni o discutere tra di voi per definire la mia aggressione. Quindi deve intervenire qualcosa di veramente istintivo quando è la legge a dominare. Per questo abbiamo la bella parola sentimento o senso di giustizia. La lingua tedesca ci indica già la via giusta da seguire [6]. Questo senso di giustizia, però, non esisterebbe se non si facesse ricorso al potere, se quindi non mi facesse escludere dal giro. Infatti non sono più dentro all’intervallo nel momento in cui colpisco il ragazzo. Vengo respinto. E qui si arriva al concetto di democrazia: democrazia è l’esclusione del potere individuale, seppur attraverso il potere stesso. Si ha una democrazia quando tutti i poteri poggiano su qualcosa che esprime il senso di giustizia dell’uomo. Si tratta di qualcosa di molto generale, dove gli uomini sono uguali. Ma nella società moderna la democrazia esiste nella stessa misura in cui esistono spiriti liberi e un’economia associativa. Provate a pensare un attimo al fatto che apparentemente oggi sia possibile acquistare dei diritti. Va da sé che in verità non è possibile acquistare nessun diritto che si fondi su un senso di giustizia. Cosa si compra in verità quando apparentemente lo si fa? Il potere dello Stato. Si privatizza il potere dello Stato quando si acquista un diritto su una proprietà fondiaria o su qualsiasi altra cosa. Oggi abbiamo quanto di meno simile a una democrazia possa esistere. Se si possono comprendere i tre domini dell’organismo sociale ciascuno di per sé, allora si può anche dare loro una forma dignitosa. La mia intenzione era darvene un primo assaggio. Altrimenti i tre domini agiscono l’uno sull’altro in maniera caotica e così l’economia sconfina nella politica e lo Stato nella vita spirituale e lo spirito libero si vuole realizzare nell’economia e la fraternità nello spirito, al punto che gli uomini diventano avvoltoi nello spirito. L’idea della Tripartizione Sociale diventa davvero appassionante solo si percepiscono i tre processi non solo in quanto tali, ma anche nella loro interazione e a questo proposito ci sarebbero molte altre cose da dire. Ma sono contento di aver fatto questa conversazione, cui si potrebbe aggiungere altro e che forse ci porterà a discutere anche di alcune iniziative pratiche in questo senso. Johannes Mosmann Note:[1] Il materialismo è a tutti gli effetti un realismo idealista. Il materialista non comprende il pensare e pertanto in riferimento alla materia utilizza pensieri astratti (atomi, quark, ecc..), pur non riconoscendoli come tali. E in riferimento al mondo delle idee impiega "informazioni", ovvero qualcosa di concreto. [2] Eventuali obiezioni che dovessero sorgere spontanee sono legittime. Come la domanda: in un libero vivere spirituale come si può essere sicuri di non essere vittima della ciarlataneria? L’importante, comunque, è con l’obiezione non si arrivi a confondere subito la vita spirituale con quella politica, ma si aspetti di vedere se la propria obiezione possa mutare a fronte dei pensieri cui si è fatto cenno. Se ad esempio si pensa ad un‘università in cui l’insegnante, per restarvi, ha bisogno che i propri risultati siano volutamente riconosciuti, anche la sua parola conterà qualcosa. E se un giovane arriva in un ospedale e si candida come chirurgo e l’ospedale gli chiede: con chi ha studiato? Qual
è il giudizio del suo professore sul suo operato? È possibile parlare con il suo professore? Le informazioni sulla parola di un esperto dicono molto di più di qualsiasi voto o “diritto”. [3] Non si deve temere che saranno le persone a imporsi quando l‘autorità esterna sarà abolita. Perché saranno costrette a concedersi spazio l’un l’altro. Se 10 persone sono sedute in una stanza e agiscono senza costrizione, le cose possono succedere solo grazie al libero rispetto. Perché è solo il singolo a potersi attivare. Quindi non ha nessuna importanza se oggi, ad esempio, gli insegnanti Waldorf si lamentano che non erano al corrente non solo di dover lavorare senza rettore, ma che avrebbero dovuto anche escludere qualsiasi processo democratico, secondo Rudolf Steiner. L’importante è che agiscano di conseguenza. Perché in questo ambito solo l’esclusione del voto democratico porta a un’intesa reale creata nella libera conoscenza. L’importante è mettere lo spirito davanti a quegli ostacoli che lui ha il compito di togliere per vivere. Solo se si possiede una prospettiva personale si possono comprendere queste parole. [4] Se l’idea di un libero vivere spirituale rappresenta sempre e comunque una risposta all’interruzione dell’incontro individuale dovuta all’industrializzazione, non è nient’altro che l’espressione di una passione personale. Il libero vivere spirituale trova il proprio fondamento in se stesso e non necessita di nessuna giustificazione economica. È vero che la vita spirituale agisce su quella economica. Questo tuttavia, come si dirà più avanti, costituisce un problema e non la soluzione della questione economica. È vero anche che solo nell’ambito di una vita spirituale libera possono nascere visioni capaci di trovare una risposta alla questione economica. La visione, però, porta non a voler dare risposte nell’ambito della vita spirituale, ma a comprendere la vita economica come processo indipendente che affianca la vita spirituale. Una visione appropriata della vita economica che possa nascere nell’ambito di un libero vivere spirituale porta a un’idea di vita economica non quale realtà capace di crearsi da sé, ma che necessita di una vita spirituale libera. Solo chi se ne accorge può affermare a ragione che una vita spirituale libera ha una grande importanza anche nelle questioni economiche. [5]Se si fanno riflessioni solo dal punto di vista economico, si arriva a qualcosa di molto diverso da una ideologia della scommessa. Dal punto di vista economico non ha nessun senso che uno Stato raggiunga, ad esempio, il primato per le esportazioni. Infatti se i tedeschi vogliono esportare i loro prodotti, i loro proventi sono tali solo se i greci agiscono a loro volta. L’interesse quindi ha valore solo in un rapporto equilibrato. Se si ignora questo aspetto e si mira solo ad avere i prezzi più bassi senza tenere conto dell’altro piatto della bilancia, abbassando i prezzi si arriva ad esempio a distruggere l’economia greca, sulla quale però è costruita la propria. Ne consegue necessariamente che ci si appiglierà al diritto e quindi allo Stato greco. Questo principio, prima o poi, porterà a una guerra europea, in quanto esso rappresenta il principio stesso della guerra. Dal pensare solo in termini economici consegue il puro fattore economico della formulazione dei prezzi. E questo fattore è il rapporto numerico che persone impiegate in diversi settori incassano l’una dall’altra. Se ad esempio i prodotti dell’agricoltura diventano troppo cari rispetto a quelli dell’industria tessile, le persone del settore tessile devono trasferirsi in quello agricolo. Il che, alle stesse condizioni tecniche, fa crescere il settore agricolo e fa di nuovo scendere il prezzo rispetto ai prodotti tessili. malgrado i limiti imposti dallo Stato bisogna riuscire a seguire questo principio per generare un equilibrio ed è possibile farlo solo grazie a una rete associativa. Non lo si comprende e ad esempio nella stessa situazione si va avanti con poco personale, si è costretti a industrializzare l’agricoltura senza che questa riesca a tollerarlo. Ma questo comporta che prima o poi si sia costretti ad aumentare la quantità di terreno a disposizione, come adesso si fa in Asia o in Africa e il risultato sarà una guerra che coinvolgerà anche i fronti internazionali. In un modo o nell’altro si arriva necessariamente alla guerra, se non viene eretta un’economia su un terreno indipendente accanto alla vita politica e a quella spirituale. Se non si organizza un’economia esistente di per sé, ma si usa lo Stato per tenerla ferma, essa sfugge di mano e travolge a sua volta lo Stato stesso. [6] In tedesco rispettivamente Rechtsgefühl e Rechtsempfinden, dove Gefühl rimanda alla sfera del sentire emozionale e empfinden a quella del sentire più generale (anche fisico). In questo senso i due termini tedeschi coprono tutto l’ambito del sentire. N.d.T. |