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La proprietà dei mezzi di produzione



Settimo capitolo
Il vecchio e il nuovo diritto di proprietà

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Dal punto di vista del capitale privato nella “formula magica” della proprietà dei mezzi di produzione si identificano “rudimenti” del passato. Non è una regressione questa? In diversi modi ci è stato dimostrato che nel vecchio diritto germanico una proprietà privata dei mezzi di produzione distinta da quella comunitaria (della tribù o del popolo) non esisteva (per questo Fehr parla di “diritto unitario” in contrapposizione al dualismo romano). Detto questo, non senza ragione sorge spontaneo chiedersi: per risolvere la questione della proprietà nella nostra società industrializzata potrebbe essere utile tornare ad adottare l’antica forma di diritto unitario dove la proprietà era ancora intesa come “prestito” concesso dalla tribù al singolo?

Consideriamo questa ipotesi. Senza dubbio siamo di fronte a un evento fondamentale dello sviluppo sociale se in tutte le culture i mezzi di produzione naturali e la terra attraversano un momento dello sviluppo della civiltà stanziale in cui la ripartizione della terra avviene attraverso il prestito e non in altro modo. Questo grado primordiale di sviluppo esiste ancora in quelle culture in cui persiste un legame diretto con la natura. Il presidente del senato del Senegal Leopold Sedar Senghor ne ha parlato nelle sue conferenze intitolate “Dello spirito della negritudine africana” che citeremo in seguito[1].

Proprietà non in senso europeo

Un tempo nell’Africa nera non esisteva, come non esiste tutt’ora, una proprietà come la si intende in Europa, ovvero l’idea che qualcosa possa essere usato, sfruttato, distrutto o venduto. Più precisamente i mezzi di produzione comuni come la terra e le sue ricchezze non possono chiamarsi proprietà. Si ricordi soprattutto che secondo l‘Animismo dei neri africani la terra, che per una civiltà agricola rappresenta il mezzo di produzione fondamentale, è come una persona e ha un’anima. Il capotribù che per primo ha dissodato e popolato quel pezzo di terra, attraverso un rito sacro e sacrificale ha stretto un patto con lo spirito di quest’ultima e non solo per sé e a nome proprio, ma a nome della comunità da lui personificata. E il patto è stretto non con la terra soltanto, ma anche con le sue risorse: i giacimenti e i corsi d’acqua, gli animali e le piante.

Nell’Africa nera quindi il “diritto privato” sulla terra e le sue risorse non esiste e tanto meno un “diritto di proprietà” [...] piuttosto un “diritto di utilizzo” o “usufrutto”[...] espressioni come “signore”[...] o “proprietario della terra” non devono trarre in inganno[...] La terra a noi concessa appartiene allo spirito della stessa. Il re o “signore della terra”, il primo discendente del capotribù dispone solo di quanto può essergli utile e solo a nome della comunità. Quale “signore della terra” il più anziano della tribù è in dovere di vigilare affinché il terreno della collettività sia preservato e impiegato nel modo giusto. È lui che determina quali parti, risorse, corsi d’acqua, campi e boschi impiegare; divide i possedimenti tra le varie famiglie e li fa ruotare affinché quelli buoni e quelli cattivi non siano sempre nelle mani degli stessi; infine si assicura anche della rotazione delle culture e dei tempi di fermo. Se sulle terre di questa comunità vige solo il diritto di usufrutto la terra è inalienabile, perché alienabile è solo qualcosa che appartiene a qualcuno. E la terra non diventa proprietà nemmeno quando viene conquistata. Come ha scritto Maurice Delafosse “L’unica fonte della proprietà è il lavoro o ancora di più l’attività produttiva dell’uomo. Anche da essa però il diritto di proprietà nasce solo a partire dalle cose create”. In questo modo quindi non si è proprietari della terra, ma del raccolto; non del fiume, ma dei pesci pescati; non degli alberi cresciuti spontaneamente nei prati, ma solo dei frutti colti; non degli animali dei boschi, ma — nelle riserve — solo di quelli abbattuti. Il tipo di proprietà è dato dal tipo di lavoro: a seconda che si tratti di un lavoro collettivo o individuale anche la proprietà sarà collettiva o individuale. I prodotti derivati dai campi o dal bestiame sono quindi una proprietà collettiva della comunità e quelli dei singoli invece appartengono al singolo. Lo stesso vale per i vestiti e gli strumenti di lavoro, a seconda della loro provenienza[...].

I neri dell’Africa non si sono mai concentrati sul lato individuale dell’uomo, ma non per questo le persone sono rimaste indietro come molti vogliono credere. La persona non si realizza tanto nella tensione verso l’unicità e l’isolamento quanto piuttosto nell’accrescimento e nell’approfondimento della vita spirituale. Come scrive Jacques Maritain “se una persona vuole promuovere davvero una forma di proprietà collettiva il risultato non deve essere una spersonalizzazione dei beni posseduti”. Come abbiamo visto i neri dell’Africa sono legati agli oggetti posseduti da rapporti di diritto trasmessi e ancor di più da vincoli mistici. Di fronte alle sue proprietà l'africano — quando anche alle terre della tribù —, si sente una persona e le proprietà stesse sono da lui viste come persone. La proprietà dei mezzi di produzione quindi non è un’astrazione assurda. Il lavoratore non si vede come una mera funzione per il suo terreno e i suoi strumenti, ma sente ed è consapevole che il suo spirito e le sue braccia lavorano liberamente una terra viva che gli appartiene come una parte del proprio essere. Le citazioni terminano qui.

Lo Stato discende dai nostri avi?

Nell’evoluzione dell’umanità non esistono passaggi precisi veri e propri. Si tratta piuttosto di un progredire collettivo, dove però tappe singole (che si manifestano in specifiche forme di società) sono superate da popoli o culture in periodi spesso troppo lontani. Più di mille anni fa nell’antico diritto germanico si pensava alla terra come a un mezzo di produzione naturale e si sentiva una sorta di “obbligo” nei confronti del suo creatore, come dice Senghor. L’appezzamento di terreno assegnato al singolo e all’avente diritto di utilizzo era un beneficio concesso, l’investizione era un momento festoso dove si assegnava un anello d’oro simbolico. A questo proposito non serve ricordare molti esempi simili di forme feudali (è noto soprattutto il Mir della Russia europea, l’assemblea locale che ha resistito fino al nostro secolo[2]); sempre ci imbattiamo in situazioni in cui il mezzo di produzione naturale non è fatto circolare dal suo “proprietario” attraverso l’acquisto e la vendita, ma appellandosi al voto dei rappresentanti della comunità. Come dice Senghor “Il re o signore del terreno, il più antico discendente della tribù, può utilizzarne la parte utile solo a nome della comunità”. Oggi, all’odierno stadio di sviluppo, è possibile ricorrere a queste forme primitive di proprietà di utilizzo comunitario ed ergere lo Stato a rappresentante della comunità e a massima autorità per il conferimento dei diritti di utilizzo o l’assegnazione dei compiti che riguardano i mezzi di produzione, come accade nel Comunismo? Oggi lo Stato è il legittimo e “più antico discendente dei nostri avi” e, in quanto tale, gode non solo del diritto di disporre dei mezzi di produzione naturali e delle materie prime, ma anche dei mezzi e delle macchine del collettivo prodotte dall’uomo? O forse di fronte ai resti dell’antico ordinamento sociale siamo in presenza di nient’altro che un anacronismo che significherebbe un passo indietro, come controbatte il dogma occidentale della proprietà privata?

Anche il capitalismo privato sente la necessità di un’istanza che agisca nell’interesse sociale. Nell’economia di mercato sociale della nostra Repubblica federale il capitalismo privato rappresenta l’economia di mercato (per sua natura antisociale e orientata alla lotta), lo Stato, in veste di rappresentante della comunità, funge da “protesi sociale”. Pur non essendo “il signore della terra”, ha il compito di impedire un uso sbagliato dell’autorità privata e illimitata sulle cose data dal diritto romano, che significa da un lato limitare l’autorità stessa e dall’altro assumere la funzione di assistenza pubblica per quanto concerne quella parte di attività non coperte dall’economia di mercato capitalista.

Il dualismo dato dalla distinzione tra jus singulorum e jus populi presente nel diritto romano e tramandatosi, ha assunto da tempo un carattere istituzionale nella società. Essere attivi a livello economico non significa abbracciare tutti gli interessi privati e sociali in modo unitario ai sensi della legge. Dal concetto dualistico di diritto nasce piuttosto uno sdoppiamento che sta alla base dei problemi sociali della nostra epoca, in cui la proprietà si fa privata (privare = rubare) e il compito di ordinare la parte “sociale” della proprietà è assegnato allo Sato. Tutto ciò che lo Stato può fare è raffazzonare, perché la formula magica per risolvere il problema è triplice e non duplice e allo stato attuale con la ripartizione dei compiti in essere la volontà del singolo non è controllabile; si potranno solo riparare i danni. Con gli strumenti primitivi l’uomo contribuiva alla produzione dei mezzi di produzione sacri della natura; a quel tempo si aveva un rapporto diretto con la divinità creatrice e anche lavorare con la terra e le sue forze sacre, per ogni singola attività produttiva, era voluto dalla divinità e pertanto rappresentava un agire morale. Con l’arrivo dei mezzi di produzione artificiali si è compiuto un cambiamento a livello di coscienza. Questi mezzi di produzione (di secondo ordine) sono un prodotto nuovo della società. Forse che il significato di “sacro” a loro riferito è ancora lo stesso, come è scritto nel codice civile francese “sacre et inviolabile”, di quello dei mezzi di produzione originari di primo ordine? Oppure questa formula giuridica sulla sacralità della proprietà è diventata una frase fatta? Con questo si vuole dimostrare che nel corso dell’evoluzione si trascinano per secoli antichi sentimenti religiosi che – come scatole vuote fuori posto nella società – diventano pietre dello scandalo sociale e motivo di colpi di stato. Il brutto è quando a queste scatole vuote lo Stato conferisce un valore e li fa diventare un feticcio del suo potere “sacro” e assoluto. Ma è questo che accade quando sia nell’Est che nell’Ovest lo Stato prende il posto delle antiche istanze – che invocavano la sacralità e l’inviolabilità – che in passato (nell’antichità impersonate dal re o dai sacerdoti) regolamentavano l’esistenza della proprietà (sui mezzi di produzione delle origini).

Non sacro, ma umano

I mezzi di produzione nella loro sostanza sono cambiati; l’essere strumento rimane sullo sfondo rispetto all’apparenza materiale, dietro alla quale si cela lo spirito umano. Senza di esso e cioè se il collettivo degli strumenti prodotto dall’uomo non fosse messo in funzione e “in vita” grazie al lavoro dell’uomo, sarebbe un accumulo di materia morta, ovvero una natura deteriorata.

Osservando questa natura deteriorata, questi mucchi di acciaio e pietre come una proprietà “sacre et inviolabile”, sorge spontaneo chiedersi: perché? Per il proprietario, il capitalista o lo Stato non sono tali [cioè sacri ed inviolabili] perché sorretti da uno spirito umano e “prodotto della società” perché frutto del lavoro di chi a questo mucchio di acciaio e pietre ha dedicato la propria vita attiva e quindi del lavoro di una società di individui appartenenti a una fabbrica di oggetti che altrimenti sarebbero privi di vita?

A livello atavico, come dice il presidente Senghor, lo “spirito della terra” è una forza spirituale che genera la produttività del mezzo di produzione naturale e di conseguenza la produttività della terra che vive nel processo di crescita e di germinazione. Il processo produttivo di secondo ordine è sorretto in primo luogo dal potere spirituale dell’uomo che rende produttivo questo mezzo di produzione umano-sociale. Vediamo che in un certo senso si tratta di un percorso in discesa: dal mezzo di produzione divino di primo ordine a quello umano di secondo ordine. Tuttavia esso è direttamente proporzionale all’ascesa della consapevolezza dell’uomo e quest’ultimo di propria iniziativa ha avuto accesso alla sfera decisionale. In questa importante fase evolutiva i mezzi di produzione di primo e secondo ordine dal punto di vista giuridico e funzionale assumono la posizione che l’uomo assegna loro. La questione dell’ordinamento giuridico e sociale è meramente terrena e umana, palesata negli scontri ideologici di tutto il mondo e nelle lotte sociali. Con l’evoluzione umana il concetto di proprietà ha cominciato a vacillare. Ben presto (considerato il legame che l’uomo crea con il mezzo di produzione attraverso il lavoro) la proprietà diretta e privata è parsa tangibile, questo rapporto personale di proprietà è venuto meno e dietro al mezzo di produzione si è cominciato a vedere la comunità, il popolo, i propri fratelli, i soci, ovvero coloro che senza occuparsi della produzione usano questi mezzi per la propria sussistenza oppure hanno contribuito alla loro creazione. Per Senghor questa complessità funzionale della proprietà sta ancora alla base dell’arretratezza della proprietà collettiva africana che risulta contraddittoria. Se da un lato significa “no alla proprietà in senso europeo [...] nell’Africa nera non esiste il diritto di proprietà sulla terra e le risorse, ma il grado di utilizzo [...] l’usufrutto [...], il terreno appartiene allo spirito della terra ed è inalienabile”, tutte affermazioni pressoché comuniste, e ancora: “allo stesso tempo (con la proprietà) i neri dell’Africa hanno un legame ancora più stretto e mistico. Rispetto a quello che possiede l’uomo si sente come una persona e anche l’oggetto stesso del possesso è considerato tale. La proprietà dei mezzi di produzione, dunque, non è un’astrazione assurda. Il lavoratore non si vede come una mera funzione per il suo terreno e i suoi strumenti, ma sente ed è consapevole che il suo spirito e le sue braccia lavorano liberamente una terra viva che gli appartiene come una parte del proprio essere”. La dimensione personale arriva addirittura ad affermarsi dove ancora esiste la proprietà collettiva. Ciò che serve quindi è cercare un nuovo rapporto giuridico tra individuo e mezzi di produzione.

Una nuova unitarietà di diritto

Il dualismo del diritto romano ha cancellato l’unitarietà di quello germanico. Come dice Fehr “dovrà nascere un nuovo diritto unitario”. Ma riuscirà a superare il dualismo di quello romano e ad essere unitario come quello antico? La questione solleva il problema del concetto di unitarietà. Cosa si intende per “unitarietà”, se ad esempio, come dice Senghor, in Africa il diritto di proprietà in senso europeo non è riconosciuto, ma l’uomo africano si sente “persona” di fronte all’oggetto posseduto e quindi “la proprietà dei mezzi di produzione non è un’astrazione assurda”? A chi andrà in futuro la proprietà dei mezzi di produzione di secondo ordine in Africa? Avendo recepito il concetto di proprietà in senso europeo, fino ad ora è rimasta nella sfera della proprietà privata. Ne è conseguito che già durante i disordini successi in Congo l’entusiasmo per l’arrivo della libertà nel nuovo Stato africano si è trasformato in amarezza. I nuovi Stati dell’Africa sono di fronte ad un aut-aut. Si accoglierà la democrazia occidentale lì dove le antiche forme collettivistiche sono ancora vive? Oppure il vortice di queste antiche forze porterà a una forma seppur modificata di comunismo, se come dice Senghor “la questione verte soprattutto sul riportare in vita le forze del nostro passato”?[3]. Il dualismo tra evoluzione della persona e “comunità collettivistico-animica delle origini” è una sorta di Scilla e Cariddi, qualora non si riesca a realizzare un’unità di diritto attraverso una nuova formula triplice corrispondente al nuovo grado evolutivo. Perché l’antica forma di unità, in tal senso, è svanita e rimpiangerla non ha alcun senso; dovremmo invece inserirla in un sistema di leggi sullo sviluppo degli organismi sociali quale origine di una comunità legata alla natura. Con l’arrivo dei mezzi di produzione di secondo ordine si è raggiunto un terzo livello di cui il dualismo tra persona e società rappresenta un momento di passaggio. Come dovrebbero fare le nuove nazioni africane ad arrivare a questa nuova triplice unità contrapposta all’unità comunista e al dualismo democratico dell’Ovest senza ricevere da quest’ultimo nessun supporto per prenderne coscienza? Finché l’Ovest relegherà il dualismo a un anticomunismo sterile ai fini di un riconoscimento sociale vero e proprio, la terza via rispetto a Scilla e Cariddi non sarà praticabile, perché invece delle vere problematiche sociali, le mette di fronte solo alla scelta tra Est e Ovest. Sulla base dei presupposti che (secondo Senghor) caratterizzano queste comunità, non ci sono dubbi su quale parte ricadrà la scelta.

La triplice unitarietà della proprietà dei mezzi di produzione

Salta subito all’occhio che esistono due fazioni che avanzano pretese sui mezzi di produzione (una vera novità per l’Africa) di secondo ordine e costituiscono una sorta di polarità: quelli che li utilizzano per produrre attraverso il lavoro fisico e spirituale e la comunità che li ha prodotti. La forza spirituale dell’era scientifica ha creato questi mezzi di produzione come frutto di un lavoro collettivo e li ha messi a disposizione per avere una contropartita (e quindi sottoforma di credito). La tendenza odierna rispetto ai mezzi di produzione di secondo ordine è di sottovalutare il contributo della comunità (che ha assunto il ruolo di creatore) e di sopravvalutare quello dei proprietari (che in quanto finanziatori mirano solo agli interessi – limitati nel tempo – del proprio capitale).

Invece si dovrebbe solo ammettere che quanto messo a disposizione dalla società è controbilanciato dal lavoro delle maestranze e che tra essi è possibile instaurare un equilibrio di tipo organico e sociale (tendenzialmente sempre presente), escludendo quei fattori che dal punto di vista giuridico vanno a interferire in modo deciso e violento su questo equilibrio con pretese di proprietà o assenza di garanzie. Allora sarà possibile anche ripristinare l’unitarietà (triplice) tra persona, diritto e comunità che è ancora in parte presente nell’arretratezza anacronistica dei neri africani descritta da Senghor. Ma per prima cosa la proprietà di chi lavora con i mezzi di produzione non deve essere un‘“astrazione assurda“ e quindi non deve essere fittizia. Accanto all’operaio che lavora al tornio che rappresenta lo strumento di espressione della sua forza fisica e spirituale, non deve più esistere nessun proprietario “fittizio” (tale solo per la legge). Il diritto di proprietà su qualcosa è autentico e reale solo quando è di colui che ci lavora (proprietà collettiva). Questo rapporto autentico rappresenta una sorta di “legame mistico” (per riprendere la terminologia di Senghor), poiché l’uomo deve avere la possibilità concreta “rispetto all’oggetto posseduto (che dunque possiede!) di vivere come persona o comunque di “sentirsi come una persona di fronte all’oggetto posseduto” (e cioè senza un capitalista o un azionista che si intromette nel rapporto oggetto-proprietà!). La realtà di questo rapporto tra lavoro, strumento e proprietà permette alle maestranze di operare come tale e unica nei confronti dell’imprenditore. Se ne incentiva l’iniziativa invece di paralizzarla come accade con la proprietà statale (o anche con la proprietà privata d’impresa o manageriale). Finché non sarà così e il rapporto reale di proprietà tra collettivo degli strumenti e le maestranze sarà traviato dalla finzione giuridica (perlopiù anonima) di un possessore di capitale, bisogna considerare le comunità come “sistemi finalizzati” e il lavoratore deve vivere la dipendenza, la finalità, l’intermediazione e l’insicurezza economica come reali.

Conclusioni: esiste un rapporto sostanziale di proprietà tra il collettivo degli strumenti di produzione e le maestranze. Parlando di lavoro individuale, nell’antico diritto romano esisteva la proprietà sui mezzi di produzione, che tuttavia non erano né vendibili né ereditabili. La suddivisione del lavoro in categorie ha reso possibile l’odierna economia basata sul credito. Con essa il capitale può essere ripartito in linee di credito (sottoforma di prestiti) e in questo modo i mezzi di produzione vengono prodotti e messi a disposizione delle maestranze prima ancora di essere usati. Oggi i mezzi di produzione sono creati solo ad opera dell’azione congiunta di categorizzazione del lavoro e crediti. Il peso sociale di questi prestiti necessita di essere controbilanciata dal punto di vista giuridico dall’operato delle maestranze. Perché la legge è sinonimo di ordine. Il piatto della bilancia che contiene la fabbrica, e nello specifico la comunità, poggia su un punto (fulcro) di un ordinamento giuridico che “associa” nel modo giusto i due poli costituiti dalla cella produttiva e la comunità. Ne risultano tre rapporti sostanzialmente diversi con i mezzi di produzione che insieme (e cioè nella loro azione congiunta) costituiscono un’unità. Rispetto a qualsiasi entità unitaria del passato dell’ordinamento giuridico germanico (o del collettivo delle origini) è diverso ed è l’espressione dell’evoluzione dell’uomo e della sua presa di coscienza. A sua volta questa differenziazione accade secondo natura ogni volta che un’unità si polarizza. I poli però non devono uscire dal cerchio che li tiene uniti dalle origini e creare rapporti fallaci (come accade con la proprietà esterna), perché altrimenti viene a costituirsi una spaccatura, una separazione, l’antagonismo e l’odio. C’è bisogno invece di una terza forza in grado di vincere e mantenere unite in modo organico queste polarità[4]. Questa terza forza è per noi il diritto. Esso è l’elemento che avvicina e mantiene l’unità degli opposti e ne è il mediatore. I suoi contenuti non sono quelli di un diritto antico e conservatore (appartenente alla romanità o alla tradizione, estraneo alle circostanze sociali in divenire). La sua sostanza socio-giuridica è il risultato dei rapporti (giuridici) tra la società da un lato e i lavoratori che fanno uso dei mezzi di produzione dall’altro. Se negli antichi rapporti collettivi di proprietà esisteva una consapevolezza con tutte le caratteristiche di un’anima di gruppo basata su relazioni naturali di sangue, razza, tribù o di popolo, in una comunità di persone che lavorano insieme in una fabbrica questo tipo di forze animiche di gruppo non esiste più; questi antichi rapporti naturali non ci sono. È sopraggiunta l’associazione di persone “con finalità” (senza una parentela naturale) a fronte di competenze di natura intellettuale diverse che unite riescono a raggiungere l’obbiettivo. Non si tratta di istinti, ma di forze spirituali che a partire da ragioni singole intendono creare una nuova sostanza (spirituale) di gruppo e allo stesso tempo diventano una comunità (animico-spirituale) (che non ha più a che fare con il collettivismo istintivo di un tempo) di forze individuali che agiscono insieme per un fine comune. In ambito aziendale nella lotta socio-economica liberalista il corrispettivo negativo sarebbe l’iniziativa individuale egoistica e senza scrupoli. L’economia liberale ha scatenato queste forze individualistiche e ne ha fatto il proprio dogma, secondo il quale occorre liberarle per scopi diversi da quelli egoistici. E qui nasce l’errore. In realtà non si fanno i conti con forze libere dell’individuo, ma con istinti primordiali e personali di sopravvivenza e di soddisfazione. Il risultato sono l’asocialità e la massificazione, che da istinti personali diventano collettivi. Questo è ciò che realmente esiste nelle fabbriche, nelle gerarchie verticali e nei rapporti di collaborazione verticali. In effetti la fabbrica moderna non è una comunità, ma una “costruzione finalizzata” che subisce forze centrifughe pericolose. Solo una struttura di tipo associativo veramente indipendente e liberata da scopi egoistici di proprietà può essere rivoluzionaria. Essa mette in pratica forze che vanno in una direzione sociale e stanno alla base del progresso dello spirito degli individui. Tuttavia, come abbiamo cercato di dimostrare, per farla nascere occorre un nuovo ordinamento giuridico relativo ai mezzi di produzione. Esso dovrebbe considerare le varie personalità non soltanto come soggetti politici (come nel diritto romano), ma come individui spirituali. Il lavoro delle fabbriche è incentrato su questi (indipendentemente dal tipo di lavoro, sia esso manuale, intellettuale-organizzativo o tecnico). In base a ciò al posto della dipendenza si affermerà un rapporto libero tra lavoratore e datore di lavoro, se al posto dell’opera decisionale d’altri si avrà la compartecipazione e al posto della mera mediazione si avrà un rapporto consapevole con gli strumenti (personali o del collettivo) per vivere una nuova responsabilità sociale e al posto dell’insicurezza economica far subentrare una sicurezza tale in tutta la comunità sociale al punto che la compartecipazione riguarderà tutti i processi produttivi e si comprenderà l’importanza della funzione sociale.

Anche il moderno uomo industriale – nel suo piccolo – nella grande compartecipazione sociale potrebbe elevarsi spiritualmente, secondo il presidente Senghor un lontano miraggio per l’arretratezza odierna. Questa visione data dall’osservazione di antichi resti non è solo un ideale, ma la speranza nell’ ordinamento del passato. Nella prefazione al manifesto comunista si dice: “la comunità di contadini russi, nonostante la comune proprietà delle terre sia una forma bistrattata, può passare a un tipo di comunismo superiore o deve comunque prima compiere lo stesso processo che si è avuto nell’evoluzione storica dell’Occidente?”. In base all’esperienza, si può rispondere che le forme collettivistiche del futuro saranno “superiori” se nello sviluppo della consapevolezza e degli individui si terrà conto dell’ordinamento giuridico e sociale.


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Note:

[1] Da un articolo della Frankfurter Allgemeinen Zeitung (n. 271 del 21.11.1961, pag. 9) sulle sue conferenze.

[2] Sull’isola di Langeneß (di fronte alla costa occidentale dello Schleswig-Holstein) si è mantenuta fino a pochi anni fa la ridistribuzione dei terreni in determinati periodi.

[3] Sempre secondo Senghor “la maggioranza dei capi di Stato africani hanno scelto un governo di tipo socialista, per non dire comunista. Nelle mie argomentazioni ho sempre cercato di dimostrare che la cultura nera africana affonda le sue radici in una comunità di tipo collettivo, in altre parole è sostanzialmente di tipo socialista. L’errore sta nel pensare a un socialismo di tipo europeo, senza prima averne analizzato a fondo le caratteristiche. Non si è compreso che esso è stato la naturale conseguenza di una data situazione storica. Trasferire in Africa le istituzioni volute dal Socialismo sarebbe un grandissimo errore”.

[4] Il sistema nervoso e il metabolismo sono i poli naturali che grazie al funzionamento del sistema ritmico che li unisce rappresentano l’espressione dell‘unità funzionale del corpo (R. Steiner).