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La Tripartizione: una utopia?

Aurelio Riccioli

03/2011

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La Tripartizione dell'organismo sociale viene in genere liquidata come cosa dilettantesca e assolutamente irrealizzabile, malgrado spesso le venga riconosciuto un elevato contenuto morale e nobili aspirazioni. Tale giudizio - o meglio, pregiudizio - sarebbe dovuto in gran parte al fatto che essa non è stata ancora realizzata in nessun luogo nemmeno in modo parziale, e che il rinnovamento sociale da essa propugnato consiste in realtà in un insieme di linee guida valide e condivisibili in via di principio, ma non supportate dai dettagli necessari per una pratica implementazione. Sebbene con ciò nulla si sia ancora provato in merito al suo effettivo valore, e quindi della sua aderenza o meno alla realtà, di fatto la Tripartizione viene ad essere relegata fra le utopie. A tal proposito, tuttavia, possiamo anche riandare verso il passato, e considerare come il socialismo di un Robert Owen sarà stato anche "utopico" e meno accurato dal punto di vista teoretico rispetto a quello "scientifico" di Marx (definizioni date da quest'ultimo), eppure, come vedremo nel prosieguo, è difficile sostenere che, alla prova dei fatti, il primo sia stato tanto più fallimentare del secondo. Se poi ritorniamo al tempo presente, risulta difficile capire per quale motivo i presunti uomini "veramente pratici" di questioni economiche e sociali non siano ancora venuti a capo di una crisi economica che appare in effetti sempre più fuori controllo.

Che cosa significa dunque il termine "utopia"? Se facciamo ricorso al dizionario, scopriamo che esistono diverse accezioni del termine. La prima, tratta dal campo filosofico, definisce come tale il «progetto di una società perfetta, collocata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale gli uomini dovrebbero poter realizzare una convivenza del tutto felice». Una sorta di paradiso in terra dunque, privo di contrasti, tutto armonia e felicità. La seconda accezione deriva per estensione dalla prima: «aspirazione o speranza generosa ma spesso irrealizzabile». Si tratta indubbiamente dell'accezione più comune del termine, caratterizzato da una valenza negativa in quanto sinonimo di chimera, illusione vera e propria se non addirittura di falso ideale. Infine, il termine può indicare anche «Una meta intesa come puramente ideale e come punto di riferimento su cui orientare azioni pragmaticamente praticabili». [1]

Nel caso della Tripartizione possiamo escludere di certo la prima accezione. La Tripartizione è consapevole dell'impossibilità di realizzare sulla terra un sistema sociale perfetto, senza difetti e la benché minima ingiustizia sociale. Anzi, più che impossibile, si tratta di una cosa assurda, e un sano pensare, aderente ai fatti della vita, non si cimenterà nemmeno in un tentativo del genere. Essa infatti mira ad un organismo sociale possibile, nel quale gli uomini possano convivere minimizzando le tendenze antisociali che di continuo si creano all'interno della comunità umana. Il secondo significato del termine, come abbiamo visto, è di fatto quello con cui viene normalmente bollata la Tripartizione. L'ultima accezione, invece, possiede senz'altro una connotazione positiva e, al contrario dei significati precedenti, assegna ad un elemento "puramente ideale" un ruolo creativo, facendo di esso una sorta di agente catalizzatore per realizzazioni concrete. Il che apre delle prospettive interessanti. Ci si potrebbe infatti chiedere: è possibile definire le condizioni per cui, nel campo sociale, un progetto di riforme "appartiene" alla seconda accezione piuttosto che alla terza? Ovvero, siamo alla ricerca di quei fattori essenziali che, se trascurati, possono far ricadere una concezione sociale, per quanto teoricamente ineccepibile, nell'ambito delle pure chimere, e viceversa, se tenuti ben presente, possono consentire "azioni pragmaticamente praticabili" a progetti che a tutta prima appaiono assolutamente irrealizzabili. Se fossimo in grado di individuare questo criterio (o criteri) potremmo quindi disporre di uno strumento idoneo a misurare il grado di "utopicità" - intesa nel senso delle accezioni summenzionate - delle forme sociali, e condurci al tempo stesso verso una comprensione più profonda dell'organismo sociale.

Per iniziare ad affrontare il problema, dobbiamo considerare innanzitutto che quest'ultimo è un organismo vivente a tutti gli effetti. Che cosa significa? Significa che per poter intervenire efficacemente su di esso è necessario un pensiero che sia stato educato alla vita, che sia valido per la vita reale. Non si tratta qui di una banale esortazione a privilegiare una generica concretezza piuttosto che indulgere nelle astratte sfere concettuali. Si tratta di riuscire a cogliere ciò che è essenziale nell'organismo sociale, ciò che sta alla sua base. A tal proposito è indispensabile fare piazza pulita di tutte quelle opinioni e credenze che, sebbene abbiano un notevole potere persuasivo e anche una certa solidità di argomenti, tuttavia non rimandano a qualcosa di essenziale nell'ambito sociale. Parlare oggi di queste opinioni è estremamente difficile ed è inevitabile suscitare aspre reazioni soprattutto se si considerano le condizioni in cui viviamo. Ci si riferisce qui alle opinioni che riconducono il male sociale in massima parte alle diseguaglianze nella distribuzione del reddito o più genericamente della ricchezza. Il tema risulta alquanto delicato, e il sentire in questo caso può far valere le sue ragioni in modo da sovrastare la realtà dei fatti.

E' alquanto difficile infatti arrivare a conclusioni differenti osservando il precariato, la disoccupazione, le crescenti difficoltà di moltissime famiglie ad arrivare alla fine del mese da una parte, e le élite di privilegiati, gli speculatori, coloro che usufruiscono di rendite di posizione dall'altra. Ma chiariamoci bene. Quanto appena detto non significa assolutamente che queste situazioni debbano essere giustificate o legittimate o che si debbano perpetuare. Certamente sarebbe un gran vantaggio per l'intero consesso umano se ci fossero degli interventi tesi a migliorare le condizioni di vita di chi si trova in sempre maggiori difficoltà, attraverso una più equa ripartizione della ricchezza. Eppure si cadrebbe preda di grandi illusioni se si attribuisse alle condizioni esteriori una importanza decisiva nella questione sociale. Esse hanno certamente la loro parte di verità, ma non è tutta la verità. Il punto cardinale della questione riguarda invece la circostanza per cui tutta la nostra società si basa sul profitto personale, sul proprio tornaconto. In linea di principio, se tutti gli uomini ricchi e ricchissimi non hanno sfruttato nessun loro simile per diventare tali, di per sé questo non rappresenta ancora un problema sociale. Lo diventa solamente nel momento in cui l'arricchimento è stato ottenuto tramite sfruttamento ed oppressione. Ma anche se sono povero posso sfruttare qualcun altro, ad esempio quando acquisto in un grande magazzino un prodotto sottocosto. Nel momento in cui pago il lavoro altrui meno di quanto sarebbe giusto, divento automaticamente uno sfruttatore. Poco importa se si tratta di pochi spiccioli, nel caso del povero, o di milioni di euro in quello dello speculatore: ciascuno infatti sfrutta di più o di meno a seconda del posto che occupa nella società. Ciò risulta vero non solo per gli individui, ma anche per i gruppi umani e per interi Paesi. In una società basata sul profitto, le condizioni generali fanno sí che gli uomini non possano non sfruttarsi tra di loro in una data misura, e ciò avviene inevitabilmente.

E' quindi essenziale cambiare prospettiva ed iniziare a porre in discussione il ruolo del profitto personale nella nostra società. E anche nel caso venga meno il profitto, è inoltre indispensabile considerare come altre forze debbano diventare attive nell'organismo sociale, se si vuole che un rinnovamento del medesimo possa avere qualche speranza di successo. Soprattutto quest'ultimo aspetto non viene sufficientemente considerato, e coloro che vedono unicamente in Wall Street la personificazione del male sociale non possono che andare incontro a inganni e a tragici errori.

Potrebbe essere interessante a tal proposito considerare l'opera sociale del già citato Robert Owen. Vissuto in Inghilterra tra il 1777 e il 1858, Owen era dotato di notevoli capacità imprenditoriali, di un non comune senso pratico e di una eccezionale volontà di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori del suo tempo. Queste ultime in genere erano pessime: gli operai, spesso dediti all'alcolismo, erano alloggiati in tuguri in cui l'igiene era scarsa; l'istruzione dei bambini era pressoché inesistente mentre era diffusissimo il lavoro minorile; la giornata lavorativa poteva raggiungere anche le 14 ore. Owen, subordinando gli aspetti puramente commerciali alla realizzazione delle proprie aspirazioni in campo sociale, fondò a New Lanark, in Scozia, una colonia in cui le condizioni degli operai erano di gran lunga superiori a quelle delle altre fabbriche del tempo. Introdusse un orario di lavoro ridotto, creò delle scuole materne per i figli degli operai e si occupò della loro istruzione. A New Lanark la piaga dell'alcolismo era quasi del tutto assente, i salari adeguati e gli operai godevano di assistenza anche al di fuori della fabbrica. La colonia divenne quindi una sorta di modello sia sociale che commerciale, creando un "caso" che fece scalpore nell'Europa dell'epoca, richiamando migliaia di visitatori. Owen soleva dire che «la colpa non è dell'individuo, ma del sistema in cui l'individuo è stato creato» e il successo di New Lanark lo spinse a radicare in lui tale convinzione. Aveva in effetti, seppur in un ambito limitato, creato una comunità modello in cui la miseria morale e materiale era stata cancellata attraverso il miglioramento delle condizioni di vita delle persone che vi appartenevano.

Si convinse quindi che l'esperienza di New Lanark poteva essere ulteriormente replicata ed estesa, per cui si dedicò nel 1826 alla creazione di una nuova colonia in America: New Harmony. Ma questa volta le cose andarono in modo del tutto diverso. Dopo vari tentativi, Owen dovette prendere atto che molte delle persone insediate a New Harmony non avevano una sufficiente voglia di lavorare o di svolgere tutte le mansioni richieste dal suo progetto. Ne scaturirono litigi e dissapori che determinarono il successivo completo fallimento della colonia. Owen dovette riesaminare la sua illimitata fede nella bontà umana e la convinzione che da condizioni sociali adeguate si sviluppi di necessità anche un'adeguata voglia di lavorare. Concluse che un ordinamento sociale può conservarsi innanzitutto se gli uomini sono decisi a conservarlo sotto la spinta di una grande motivazione interiore.

L'esperienza di Owen insegna che è necessaria una profonda conoscenza dell'essere umano per porre un organismo sociale su solide basi. Nessuna istituzione, per quanto corrispondente allo scopo, potrà mai, di per sé, dall'esterno, spingere l'uomo a trovare motivazioni più forti e diverse da quella egoistica del trattenere per sé la maggior parte dei frutti della propria prestazione lavorativa. Ciò è risultato oltremodo evidente anche nei Paesi dell'ex blocco comunista. Sebbene esista una qualche consapevolezza della necessità di contribuire alla comunità umana, non di meno il sentire non manca mai di far presente al nostro umore quanto del nostro lavoro ci viene "sottratto", e gli uomini oggi difficilmente riescono a concepire delle alternative a questo stato di cose. I fallimenti delle riforme in campo sociale non potranno che moltiplicarsi fino a quando non si riconoscerà la seguente fondamentale legge sociale:


«La salute di una comunità di uomini che lavorano insieme è tanto maggiore quanto meno il singolo ritiene per sé i ricavi delle sue prestazioni, vale a dire quanto più di tali ricavi egli dà ai suoi collaboratori, e quanto più i suoi bisogni non vengono soddisfatti dalle sue prestazioni ma da quelle degli altri». [2]


In sostanza tutta la Tripartizione nasce per trovare le vie per realizzare praticamente questa legge. Da essa derivano infatti tutte le innovazioni sociali promosse dalla Tripartizione, dalla separazione delle tre sfere dell'organismo sociale alle associazioni economiche, alla moneta dotata di scadenza e ad altre ancora. Il fatto che la Tripartizione non si spinga a definire i dettagli delle implementazioni delle sue innovazioni non deve essere considerato come un evidente sintomo di astrattezza. Al contrario esso indica che la Tripartizione è ben radicata nella realtà. Per chiarire tale paradosso, consideriamo quanto segue:


«...Si è molto parlato di come si potrebbe intervenire sullo sviluppo embrionale dell'uomo in modo che rientri nel proprio arbitrio la facoltà di decidere se mettere al mondo dei bambini o delle bambine. ...Ritengo sia una fortuna il fatto che non venga completamente risolto nella pratica, poiché anche se gli uomini non possano stabilire dogmaticamente quale sia la migliore distribuzione nel mondo del sesso maschile e femminile, questa si verifica certamente in modo approssimativo senza il minimo intervento da parte degli uomini. Esistono dunque delle leggi obiettive che si manifestano allorquando l'uomo fa semplicemente ciò che corrisponde ai suoi impulsi elementari sulla base di presupposti completamente diversi». [2]


E' ciò che accadrà, ad esempio, nelle associazioni economiche nel momento in cui esse dovranno stabilire il giusto prezzo delle merci. Non ha alcun senso stabilire come quest'ultimo dovrà emergere attraverso rigide disposizioni di dettaglio, esso si manifesterà in modo naturale qualora le associazioni saranno poste nelle condizioni di lavoro ottimale e i loro partecipanti avranno sviluppato un'adeguata conoscenza della vita.

Rimane da fare ancora una fondamentale considerazione. L'uomo deve diventare consapevole del significato e delle vie che intraprende la sua prestazione lavorativa all'interno della comunità cui appartiene. Egli non deve lavorare perché costretto dalle necessità materiali o da un impulso moralistico esteriore. Deve sentire l'impulso a lavorare per gli altri, poiché sente che la comunità in cui è inserito ha una missione spirituale alla quale egli porta il proprio contributo secondo le proprie capacità e possibilità. Ma per poter accendere una motivazione simile è necessario liberare la sfera della cultura dall'influenza statale ed economica. Non per nulla la Tripartizione ritiene che la liberazione della cultura sia il primo passo da fare per un autentico rinnovamento sociale. Possiamo ora avviarci verso la conclusione; abbiamo compreso che la Tripartizione è una utopia intesa come «meta puramente ideale» mentre tutte le singole azioni grandi o piccole che operano nel senso della fondamentale legge sociale rappresentano le «azioni pragmaticamente praticabili» che ad essa ci avvicinano. E dunque a che serve?


L'utopia sta all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi, e l'orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? A questo: serve a camminare (Eduardo Galeano).

Note:

[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Utopia

[2] Rudolf Steiner: "Le scienze umane e la questione sociale" (OO 34), pag. 230. (Lucifer Gnosis, 1905/06)

[3] Rudolf Steiner: "Il problema cardinale della vita economica" (OO 79), pag. 28.